regia di Giuseppe Bertolucci – idea di Fabrizio Gifuni

visto al Teatro Parenti di Milano _ 11-23 gennaio 2011

In tempi come questi – in cui le recenti vicende legate alla firma dell’accordo tra Fiat e sindacati allo stablimento di Mirafiori e la successiva vittoria del sì al referendum per approvarlo, hanno messo in luce come si stiano ridisegnando i rapporti tra capitale e lavoro, e, conseguenza diretta, anche quelli tra capitale e democrazia – incontrare Pasolini a teatro è un’esperienza entusiasmante e deprimente allo stesso tempo.

L’ora di monologo di Gifuni, trasfigurato nel poeta friuliano nella prima parte dello spettacolo, investito dei panni del suo assassino nella seconda, è come un superalcolico da bere alla goccia per vedere l’effetto che fa. Sorprende, coinvolge, attanaglia l’interpretazione dell’attore romano, che in braghe larghe arringa spettatori seduti ai tavoli di una bar immaginario. In bocca ha brani tratti dalla prima versione de La meglio gioventù, Scritti corsari e Lettere luterane e li porge loro con gentilezza, come a volerne timidamente attirare l’attenzione, come fossero pensieri freschi, fatti al mattino appena scesi dal letto, pensieri su cui si dovrebbe porre attenzione perché potrebbero contenere delle verità. «Con questa vita io pago un prezzo. Voglio dirvelo fuori dai denti: io scendo all’inferno e vedo cose che, per ora, non disturbano la vostra pace. Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi», così disse Pasolini a Furio Colombo poche ore prima di essere ucciso, il 2 novembre 1975. Così, non rassegnato, non allarmante, sicuro di avere visto ciò che tutti gli altri non immaginano neanche, il poeta ci parla. La sua lucidità di profeta intellettuale disarma, la sua preveggenza nitida e così scarsamente retorica conquista più di quanto faccia di questi tempi un qualsiasi rappresentante della cultura italiana o occidentale o chiunque abbia il desiderio di ammantarsi del titolo di intellettuale. Gifuni marca le parole o le lascia scivolare via, come gli viene, con il profilo sfuggente e i modi introversi e di silenziosa sfida che erano del poeta. Ci racconta un’Italia «bruttata per sempre», votata al consumismo, mentre è cambiato il ruolo della Chiesa e sono cominciati la dittatura della tv e il genocidio culturale. Poi ci sono i giovani, svuotati di valori e riempiti di cose, e l’edonismo facile che ammazza il pensiero e ruba l’anima al popolo. Era tutto lì e nessuno l’ha visto.

È entusiasmante, certamente, che di Pasolini si torni a discutere proprio oggi, appena passato il primo decennio di un secolo nuovo che del vecchio si è portato appresso tutte queste storture, che peraltro non sembra intenzionato a drizzare. I più ottimisti sarebbero portati a dire che l’importante è che se ne parli, che se ancora qualcuno va a vedere uno spettacolo su Pasolini, in circolazione dal 2006, allora c’è speranza per questo paese, per la sua classe dirigente e per il suo patrimonio culturale inteso a 360°.

Ma in tempi come questi, l’entusiasmo è facilmente sopraffatto dal pessimismo. E da un paio di riflessioni. La prima. Dove è finito Pasolini? Relegato a teatro (che se anche da alcune parti viene oggi reinvestito del ruolo di mezzo politico, rimane pur sempre uno spazio ristretto che richiede volontà e desiderio di accedervi), a un paragrafo del secondo Novecento nelle letterature per liceali e a un corso specialistico per studiosi di letteratura italiana contemporanea all’università.

La seconda. Pasolini racconta la grande frustrazione e decadenza di questo paese, la nascita di un nuovo fascismo, l´uso strumentale dei mezzi d´informazione, un’opposizione silente e scomposta, se non inetta, che si veste di maschere progressiste. Ma bastino queste parole di Gifuni, rilasciate in un’intervista di qualche anno fa, a farci intravedere una piccola ma tremenda parte di verità: «Berlusconi, per quanto diabolico, non si è inventato niente. Ha intercettato quel che Pasolini aveva intuito con tragica lucidità».

Francesca Gambarini