Nello scantinato del negozio di motociclette Rivo1951, tra brugole e chiavi inglesi, Paola Tintinelli regala al pubblico del FringeMI Con tanto amore, Mario: la storia di un postino, Mario appunto, il cui cognome immaginiamo subito essere Rossi, perché si tratta di un uomo qualunque che cerca una forma di riscatto dalla piattezza e dalla solitudine della vita. Attraverso la sola forza della gestualità corporea, l’attrice infila una dietro l’altra le situazioni più disparate per mostrare i tentativi fallimentari di crearsi un’identità solitaria: dalle tristi feste di capodanno, al lavoro ripetitivo della burocrazia postale, a uno strano accoppiamento con un armadietto.
Il primo gesto è potente: una linea tracciata a terra con il gessetto, a delimitare la casa di Mario ma anche la soglia attraverso cui potersi incontrare, attraverso cui condividere il proprio lavoro con il pubblico. Da subito, ci si trova in sintonia con il simpatico Mario, anche perché Tintinelli è attenta e ricettiva verso tutto ciò che le accade intorno – gli sciacquoni, la musica lontana del bar, la suoneria di un cellulare, due ragazze ritardatarie – e subito inserisce queste manifestazioni del presente nella sua drammaturgia gestuale. Il risultato è che l’accadere della storia non è fermo a un momento lontano, astratto o passato, ma è qui, adesso, come per la prima irripetibile volta.
L’evocazione della quotidianità spicciola, piccola, a tratti soffocante, passa anche attraverso un grande affastellarsi di rottami malconci e mini-caricature di oggetti comuni, come un manubrio di bicicletta, piccole piante di plastica, un panettoncino e così via. In realtà, Mario non sembra compiere scelte che lo libereranno davvero dalla propria vita grigia: non solo perché gli oggetti si rivelano inefficaci o inadatti (esemplare il caso della lingerie rossa e del piccolo completo da bambino che il protagonista si spedisce da solo per posta e tenta comicamente di indossare); ma anche perché i suoi tentativi sono guidati da voci distorte, che da un altoparlante annunciano “perturbazioni” con conseguenti effetti meteoropatici sul personaggio e che lo spingono a tirarsi su in qualche modo. Le proposte sono varie: ascoltare sempre la stessa musica, improvvisare dei balletti convulsi, fare esercizi fisici, farne altri per “migliorare la propria fonetica” (nonostante Mario non parli mai), eccetera. È proprio da queste voci che emerge il migliore riassunto della parabola percorsa da Mario: «Nascita e copula e morte».
One (wo)man show totale, capace di tenere la risata del pubblico viva e farla scontrare con la violenza nascosta delle giornate che trascorrono tutte uguali, Con tanto amore, Mario stupisce e commuove, perché ci ricorda la solitudine di tante persone comuni – in particolare quella vissuta da tutti durante il periodo della pandemia – e le tragedie che popolano le cronache dei quotidiani. «Ma chi la sente la povera gente?», canta sul finale Jannacci. Paola Tintinelli – e forse non a caso questo accade proprio nella cornice periferica e suburbana del FringeMI – riesce a portare alla ribalta, pur se all’interno di quel breve confine di gesso, degli inascoltati e dei senzavoce della storia.
Giacomo Fausti
CON TANTO AMORE, MARIO
di e con Paola Tintinelli
compagnia AstorriTintinelli
Contenuto scritto nell’ambito dell’osservatorio critico di FringeMI 2022