di Serena Sinigaglia
visto al Teatro Ringhiera di Milano _ 1-10 maggio 2015
«Mike la chiamava sempre col cognome, e lei era distinta, e vestita». Lei è Edy Campagnoli, la storica valletta di quel Lascia o raddoppia atto fondante della tv italiana. Lui è Mike Bongiorno, e non ha bisogno di presentazioni. Lo spettacolo veniva proiettato nei cinema prima della visione della pellicola, prima che la tv diventasse il focolare domestico, lo stabilizzatore, il collante di un’Italia che esce dal boom ed entra negli anni delle proteste giovanili, del terrorismo. Come accade nel ventennio tra i Sessanta e i Settanta, dove chi voleva poteva coprirsi le orecchie dalle bombe che scoppiavano fuori e cantare con le gemelle Kessler il sabato sera in Canzonissima.
Se pensate di essere finiti all’università, in una lezione di storia della tv, vi sbagliate. Siete a teatro, al Teatro Ringhiera e davanti a voi avete la regista e, per l’occasione, anche attrice, Serena Sinigaglia, e i suoi alter ego, Mattia Fabris e Arianna Scommegna. Mettono in scena il senso e il significato di “Nazional popolare” (che è anche il titolo di questa pièce-conferenza): un aggettivo che contiene, in sé, tutta la forza e la peculiarità della cultura di massa italiana, quella che da Gramsci ai reality show penetra e indottrina, dirige e addomestica il paese, a più livelli, dalla casalinga di provincia all’intellettuale che scrive nelle pagine di cultura dei quotidiani.
In scena c’è Serena, con la sua passione insana per Lady Oscar, e una manciata di domande: che cosa ci racconta la tv di chi siamo, di chi eravamo e di quello che diventeremo? Perché se dici nazionalpopolare, oggi pensi a Maria De Filippi e invece sessant’anni fa il Carosello era un esempio di cultura, alfabetizzazione, orgogliosa partecipazione a un progetto sociale e politico? «Com’è che mi commuove Shakespeare ma anche l’Isola dei Famosi e non smetto di oscillare tra il bisogno di insubordinazione del teatro e quello di rassicurazione della tv?», si chiede Sinigaglia. C’è qualcosa di sbagliato? Se sì, qual è il nostro peccato originale?
È notevole l’intelligenza della regista nel cogliere, senza retorica, uno dei punti di rottura nel tessuto culturale di questa Italia che sta cambiando, che sta uscendo dal ventennio berlusconiano navigando a vista e accorgendosi di aver cresciuto una spaesata nuova generazione, una carica di venti-trentenni che, in parecchi casi, non sanno chi votare, non sanno cosa faranno di qui a un anno o nella vita intera e non hanno punti di riferimento o modelli (ancora) validi cui appellarsi. Il tema è tragico, ma pure serio: dalla tv investe la scuola, la politica, i giornali, e via elencando tutti i settori della società in cui si produce cultura e in cui cresce l’essenza del nazional popolare.
Perché, ce lo fa capire subito Sinigaglia, dire che la tv fa schifo non equivale a risolvere il problema, né si può fare come Leonardo Sciascia, che si difendeva: «La tv non la vedo, per me è come scrivere un libro sull’acqua». Ispirandosi al libro di Massimo Panarari, L’egemonia sottoculturale, Sinigaglia traccia un percorso propositivo e responsabile, che invita ciascuno di noi, tutti quelli che guardano la tv, ma anche quelli che non la accendono mai, a ritornare a pensare e a uscire dall’egemonia del “fare”: questa la sottotraccia del Paese che si sveglia, negli anni Novanta, più ricco e meno acculturato, un paese consumatore ma avvitato, che fa finta di non temere la complessità del reale perché semplicemente la ignora. Un paese che vuole solo essere intrattenuto.
Perché ora si debba uscire da questo circolo vizioso lo spiegano con precisione studiosi e filosofi che si addentrano, a metà spettacolo, in lezioni e approfondimenti (a rotazione, sono comparsi sul palco oltre allo stesso Panarari, Lorenzo Bernini, Giorgio Simonelli, Paolo Mottana). Tra le voci, quella di Lorella Zanardo, l’autrice del documentario Il corpo della donne (2009), imperdibile ritratto della femmina in tv nell’epoca del reality show e delle veline e delle letteronze. Immagini così forti e così scioccanti che hanno fatto il giro del mondo. Su Neewsweek, la giornalista Barbie Nadeau ne trasse un’inchiesta sull’immagine della donna nella tv italiana all’epoca di Berlusconi che le valse una querela da parte di Striscia la notizia. Il titolo? “We are treated like prosciutto”.
Dopo due ore di spettacolo si esce rinfrancati, ispirati, ottimisti. Fino a quando ci sarà qualcuno che si fa ancora queste domande, siamo ancora salvi. Non basta spegnere la tv per risolvere i problemi dall’Italia. Ma tentare di costruire una proposta culturale alternativa e solida, altrettanto o, meglio, realmente nazional popolare, sì. Un lavoro pulito e coerente, da portare in giro, da replicare nelle grandi città e in provincia. Da far circolare, di cui scrivere e parlare. Anche in tv. Perché no?
Francesca Gambarini