Per una fortunata coincidenza negli scorsi mesi (settembre-novembre 2015) gli spettatori statunitensi hanno potuto vedere due versioni profondamente diverse del capolavoro sofocleo, per le regie di van Hove e Terzòpoulos.
Il regista belga Ivo van Hove, già presente in America con altre produzioni, ha portato in tournée la sua Antigone prodotta da The Barbican di Londra e Les Théâtres de la Ville de Luxembourg. Ovunque grande affluenza di pubblico, spinto soprattutto dalla curiosità di vedere in scena la star francese Juliette Binoche. Il critico Ben Brantley del New York Times sottolinea però lo stridore di questa Antigone “terrorista emozionale”, che procede sulle note di un’isteria poco convincente, tutta presa nella sua ribellione narcisistica e inoltre Il Coro perde il valore di testimone collettivo, perché il suo ruolo è frammentato tra la Binoche e i diversi interpreti.
Alla base dell’interpretazione del regista – così viene sottolineato anche nel programma di sala – uno dei tanti orrori moderni che pare rinnovare quello antico: i poveri resti dei passeggeri dello sfortunato Volo 17 Malaysia Airlines, abbattuto l’anno scorso in Ucraina, sono rimasti a marcire per più di una settimana, dispersi nella pianura. L’archetipo di Polinice si rinnova nelle piaghe della contemporaneità.
In una lunga intervista a Efi Marinou (Efimerida ton Syntaktòn, 09.08.2015) Theodoros Terzòpoulos ha illustrato l’ampio respiro del suo nuovo progetto “Morti Insepolti”, tema che gli sta particolarmente a cuore. Avrà la durata di sette anni ed è pensato come un grande festival internazionale, con la partecipazione di studiosi (lo storico Marc Mazower), registi (invitate personalità del calibro di Jan Fabre, Romeo Castellucci, Kirill Serebrennikov), artisti (Ghiannis Kounellis). La staffetta culturale ha preso il via lo scorso maggio, quando il regista ha convocato al suo Teatro Attis di Atene una ventina di poeti della nuova generazione, che hanno letto le loro poesie sul tema dei Morti Insepolti, perché «la scintilla creativa indispensabile deve venire dalla poesia».
Seconda tappa: l’Antigone negli Stati Uniti. Seguirà poi una stagione russa e poi forse Cina e Giappone. Il regista rivela che l’idea è nata visitando le carceri, dove spesso i reclusi dipingono la propria condizione come quella di una morte-in-vita, senza tomba e senza le lacrime dei cari. Terzòpoulos ha esteso questa percezione alla nostra società, tutta lustrini, consumismo, oblio collettivo e umanità-zombies. Recita non a caso il programma di sala della sua Antigone americana: «Vortichiamo nel carosello della nostra bella vita, ma tutti portiamo sulla schiena la nostra bara, anche se ci rifiutiamo di guardarla».
Ci viene allora in soccorso l’eroina sofoclea, con il suo atto ribelle e sempre attuale. Ma la lettura del regista greco va inquadrata attraverso il suo “metodo” che, impostato sul respiro e la corporeità, riesce ad affondare fino alle radici primordiali del rito. Negli States questa Antigone riscuote plausi di pubblico e critica: «Uno spettacolo forse non per tutti, ma di rara bellezza e rigore» ha sentenziato David Patrick Stearns dalle colonne dell’Inquirer (17.10.2015). Ileana Dimadi (Athinorama 20.10.2015), al seguito della troupe-Terzòpoulos, fa luce su molti aspetti interessanti. Gli spettatori hanno apprezzato l’esotismo di una scelta di linguaggio ibrido, che mescola la traduzione inglese della studiosa Marianne McDonald a versi in greco antico e moderno, recitati e cantati, con un effetto di solennità sacrale sull’intera architettura verbale. Ma a impressionare il pubblico è stata soprattutto l’Antigone nera interpretata da Jennifer Kidwell, cantante soul di colore, tratti decisi e cresta alla mohicana, avvolta in un manto rosso sangue in contrasto con il suo incarnato e i vestiti scuri degli altri attori.
Fra i momenti più toccanti, la scena in cui Antigone dice addio alla vita intonando con morbide vocalità l’aria di Summertime dall’opera Porgy & Bess (1935) di Gershwin. «Questa mia Antigone appartiene ai ghetti dei neri», dichiara Terzòpoulos, e i nomi dei mitici guerrieri caduti alle sette porte di Tebe si intrecciano a quelli recenti dei neri uccisi dai poliziotti e dai suprematisti bianchi. L’attenzione però si allarga a tutti i morti insepolti moderni, vittime innocenti delle guerre, attraverso una carrellata di immagini proiettate: un bambino di una città bombardata nella seconda guerra mondiale, civili afghani e siriani.
Il cuore pulsante dello spettacolo è però il Coro, composto da tre attori storici dell’Attis e otto americani del Wilma Theater, iniziati per l’occasione al “metodo-Terzòpoulos”: un training duro e faticoso per riscoprire le potenzialità legate a una respirazione corretta, capace di attivare energie straordinarie nel corpo, che diventa strumento duttile e in ascolto dell’arcano primordiale. In apertura, su un alto ponteggio, compare l’italiano Paolo Musio, che da anni segue il Maestro greco. Vestito di nero, immobile ed estatico Corifeo, è immerso in un delirio verbale incomprensibile e nevrotico, in greco antico, mentre sopra il suo capo pende una minacciosa mannaia. Intorno, gli altri membri del Coro danno voce ai famosi versi del Primo Stasimo: «Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo», per poi scatenarsi in risate demoniache e in urla strazianti. Il Coro è fiati, fremiti vocali, iterazione parossistica dei gesti, volti alterati: occhi sbarrati e bocche spalancate rinviano all’iconografia delle maschere antiche, ma anche all’urlo espressionistico di terrore e follia.
Nei seminari e conferenze presso le università americane Terzòpoulos ha spesso ripetuto il pensiero che accompagna da sempre la sua missione culturale: «La Grecia è un Paese molto piccolo ma con una memoria molto grande. Noi Greci abbiamo l’obbligo di viaggiare come cittadini del mondo, per portare questa Memoria ovunque». La sua Antigone greca, antica e contemporanea, dopo aver conquistato l’America, è pronta a nuove esplorazioni.
Gilda Tentorio