di Claudio Fava
regia di Ninni Bruschetta
visto al Teatro della Cooperativa di Milano_29 ottobre-3 novembre 2013

Quando le luci della sala si spengono, la voce di Giuseppe Fava risuona nello spazio del teatro della Cooperativa, mentre la sua ultima intervista, rilasciata a Enzo Biagi il 28 dicembre 1983, viene proiettata sul fondo bianco del palco. Il giornalista spiega con calma e naturalezza ciò che oggi pochi hanno il coraggio di affermare: “I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. La mafia è un problema di vertici nella gestione della nazione, un problema che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale definitivo l’Italia.”

Così si apre Nel nome del padre, il monologo tratto dall’omonimo libro di Claudio Fava, figlio di Giuseppe, che sceglie la scrittura come tramite per raggiungere quel padre perso troppo presto.
È la sera del 5 gennaio 1984 quando cinque proiettili calibro 7, 65 colpiscono Giuseppe Fava seduto alla guida della propria auto. Così si compie la vendetta di Cosa Nostra nei confronti di un giornalista dalla parola troppo limpida e troppo libera. Così inizia anche la lotta di Claudio contro le indagini depistate, le verità nascoste, l’omertà diffusa e le calunnie che si affollano intorno a quel delitto di mafia.
Solo sul palco, circondato da una scenografia composta da sole tre sedie, Roberto Citran si fa carico delle parole di Claudio, le prende su di sé con la delicatezza di chi sa che nelle vite degli altri bisogna entrare con riserbo.

Il monologo procede seguendo due piani narrativi, in un sapiente equilibrio di ritmo e di emozioni: da un lato il racconto dell’inchiesta sulla morte del giornalista, di una verità negata – in primis dalle autorità – che riesce ad emergere solo grazie alla tenacia di Claudio e della sua famiglia; dall’altro il dialogo intimo di un figlio con il proprio padre, fatto di ricordi della vita trascorsa insieme e di pensieri nati in seguito, nel corso dei trent’anni che separano il Claudio di oggi, giornalista e padre a sua volta, da quella notte del 1984.
Ed è proprio in questi momenti che la voce di Citran si assottiglia, fino a diventare un sussurro che coinvolge e commuove.
Nel nome del padre
trasforma l’esperienza artistica in un atto civile di conoscenza e, nel contempo, fa del teatro un limen sacro: il solo luogo in cui è possibile riprendere un dialogo che la morte ha bruscamente interrotto.

Alice Patrioli