Mentre Marco giace a terra morto, ucciso da suo fratello Fede, le luci della Sala Cavallerizza del Teatro Litta si abbassano, la musica si alza e lo spettacolo dei Diapason cambia rotta. Si torna nel passato, ad indagare le ragioni che li hanno portati al fallimento e a una vita di criminalità. Marco è sempre in ritardo, la chitarra è di nuovo in un angolo, pronta per riprendere a suonare un allegro motivo rock tra le mani di Fede. Paolo smette di essere un fantasma seduto al tavolo, vittima e giudice muto di un’amicizia andata alla deriva. Si riaffacciano i sorrisi sui volti dei quattro protagonisti e la luce si scalda: è quasi la luce di un sole prossimo al tramonto, destinato a gettare i suoi ultimi bagliori sulla fine dei loro sogni e della loro giovinezza. Quanto può durare però questa pace che li avvolge e che può essere declinata solo al passato? Ben presto l’armonia si rovescia di nuovo in conflitto e gli spettatori diventano testimoni di quel delitto che ha sancito una volta per tutte la sconfitta dei ragazzi. Il pubblico sobbalza al colpo di pistola, la stessa reazione di qualche minuto prima, quando Marco era saltato addosso a Fede, buttandolo a terra a pochi centimetri dai tacchi di una spettatrice: c’è chi ritira le gambe, chi tenta di indietreggiare con la sedia, chi bisbiglia “che ansia”. La scena vuole colpire con tutta la sua prepotenza. L’amicizia ha ormai indossato la maschera della violenza e se ne può intuire ancora una traccia solo nella musica, proprio lì dove loro hanno fallito. “Secondo te ce l’avremmo fatta a campare con la band?” chiede Peppe, interrogando forse anche noi. Ma nel momento in cui il rimpianto vissuto nel presente lascia spazio a quello che è stato, alle risse, alle incomprensioni e alla mediocrità, la risposta, anche se non detta, aleggia sopra il tavolo come la nuvola di fumo delle loro sigarette: è, naturalmente, “no”.

Diego Luinetti, Sara Monfrini