Se la sera del tre dicembre qualcuno si fosse affacciato dentro il teatro Foce di Lugano, forse avrebbe avuto qualche difficoltà a capire cosa stava guardando. Questo perché, al primo impatto, Au bord non si presenta come un tradizionale spettacolo teatrale: alti volumi, suoni elettronici, luci innaturali. C’è persino una retina che divide gli spettatori e il palco, privo di una scenografia naturalistica: solo un velo, con dietro una donna. Lo spazio scenico è piccolo ma perfetto per ospitare solo due grandi protagonisti: un corpo e una voce, entrambi dell’attrice Monica Piseddu.
Fin dai primi minuti, Au bord porta quella familiare sensazione di una storia che già sai verrà via con te, con cui poi dover fare i conti. Sullo sfondo, vediamo due foto che si alternano: nella prima ci sono dei busti di altorilievi classici; l’altra è una foto che ritrae una soldata che porta al guinzaglio un prigioniero, nota per essere apparsa sul Washington Post nel 2004, in un reportage della prigione di Abu Ghraib. Soprattutto quest’ultima, in realtà, non possiamo contemplarla (non viene mai proiettata per più di un secondo), eppure rimane impressa nella mente.
La voce della donna sul palco, con le sue parole che si rincorrono l’un l’altra, non è interessata a descrivere la foto in sé, quanto piuttosto a parlarci di cosa le suscita. Eppure, nel fare questo, ci rende questa foto chiarissima, come se la stesse dipingendo davanti a noi, come se ci fosse ancora qualche tassello mancante e ora riempito dalla nostra immaginazione. Alla fine, che la foto proiettata sullo sfondo ci sia davvero o no, diventa di poca importanza per lo spettacolo: riusciamo a farla nostra proprio attraverso questo esercizio dello sguardo.
Si inizia ad intuire quale sia il vero tasto che Au bord spera di toccare: una riflessione che verte non tanto sul potere che hanno le immagini, quanto piuttosto sul nostro rapporto con esse. E’ quindi forse una riflessione più densa, perché parla più di noi che delle immagini, senza lasciare spazio a moralismi su cosa sia giusto e cosa no.
Le parole della drammaturgia, che in realtà risuonerebbero anche nella più ricca delle scenografie, scorrono come un fiume in piena, nonostante si colga la fatica dell’autrice Claudine Galea nell’averle scritte, e poi di Piseddu nel raccontarle.
Della donna sul palco, per tutta la durata dello spettacolo, ciò che vediamo sono pochi, scanditi, movimenti del corpo, che comunque non sono una distrazione sufficiente a quello che dice: al contrario, ne accentuano i contenuti.
Non è facile fare i conti con questa voce: la voce di una donna prima torturata e umiliata dalla madre, poi abbandonata dalla sua amata, e infine profondamente ed intimamente attratta dalla soldata della foto. Più lo spettacolo va avanti, più ci troviamo a ringraziare il regista Valentino Villa per la sua scelta di aver messo filtri e teli, seppur così sottili, tra noi e questa donna: ci permettono di mantenere un certo distacco, di pensare che alla fine è solo uno spettacolo, non riguarda noi in prima persona, quindi possiamo permetterci di mantenere la distanza. Dall’altra parte, però, il suo corpo e la sua voce chiedono la nostra completa attenzione, quasi la pretendono, e lo spettatore sente che gliela deve, perché percepisce di trovarsi di fronte a qualcosa di vero, un dialogo molto intimo, a cui gli viene data occasione di accedere.
Au bord è uno spettacolo che rompe alcune aspettative tipiche di uno spettatore di teatro: prima fra tutte, quella di mostrare il volto della protagonista, coperto praticamente del tutto dai capelli biondi di una parrucca. Gli spettatori si trovano disorientati, perché non capiscono con chi dovrebbero entrare in contatto, chi è questa donna o cosa dovrebbe rappresentare. Sembra che tutte le scelte di regia, volontarie o non, chiedano qualcosa in più, anche al pubblico. Lo spettacolo non è fatto per dirti cosa è vero e cos’è giusto — sarebbe troppo comodo — e in questo è totalmente postdrammatico. Si presenta come un flusso di coscienza di poco meno di un’ora, talmente denso che se durasse di più ci si perderebbe al suo interno.
Lo spettacolo è concluso: la donna — più che l’attrice — si inchina e sembra come ringraziare il pubblico per aver fatto questo sforzo, per aver compiuto questo viaggio insieme a lei. La nostra ultima speranza svanisce: non riusciamo a vedere il suo volto neanche ora. Non ci rassicura che quello che ha detto riguarda solo lei. Quella donna, parlando di sé, ha parlato anche di noi, soprattutto di noi.
Elisabetta Brozzi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica