di Marco Martinelli e Saidou Moussa Ba

Regia di Mandiaye N’Diaye

Visto all’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano_ 22-24 giugno 2011

“Che cosa c’entra con Dioniso?”: chiedendosi questo, a teatro, gli antichi Greci riportavano quel che stavano vedendo al dio misterioso e ineffabile che ancora oggi si manifesta in un ‘rito’ collettivo capace di coinvolgere coro, attori e pubblico in modo straordinario. Ne è un esempio lo spettacolo prodotto dal Takku Ligey Théâtre – frutto di un lungo percorso iniziato a Ravenna e approdato a Diol Kadd, Senegal – e in scena per tre giorni all’ex Paolo Pini, incluso nella ormai storica e sempre più meritoria rassegna “Da Vicino Nessuno è Normale” curata da Olinda (olinda.org). Nello spazio teatrale che era la vecchia cucina dell’ex ospedale psichiatrico ci appare, per primo, un Dioniso africano: ha la forma statuaria di un percussionista e danzatore senegalese, e ci trascina all’istante nella dimensione del rito suonando sotto braccio un piccolo tamburo, detto tama, seguito dagli altri due attori al ritmo del sabàr. Per gli spettatori che conoscono e seguono da tempo regista e drammaturgo l’apparizione ha il sapore di una madeleine proustiana: un salto indietro nel tempo di oltre vent’anni. Nel 1987 il gruppo ravennate del Teatro delle Albe ‘scopre’ – grazie al geologo Ricci Lucchi – che una zolla del continente africano è ‘migrata’ sulle coste romagnole, nella notte dei tempi, passando per la Grecia: ispirati da questa teoria, iniziano a reclutare attori tra gli immigrati africani e poco dopo arruolano nelle loro fila Mandiaye N’ Diaye (l’intera storia è raccontata in modo avvincente, come un romanzo, nel libro presentato in anteprima dopo lo spettacolo al Pini: Linda Pasina, Takku Ligey: un cortile nella savana. Il teatro di Mandiaye N’Diaye. Postfazione di Marco Martinelli, Titivillus, Corazzano, PI, 2011). Molti spettacoli delle Albe sono nati da quell’incontro fortunato tra la cultura romagnola e il wolof senegalese: una lingua che non conosce una parola per dire ‘teatro’ o ‘attore’, ma vanta un formidabile ‘concorrente’, il griot / cantastorie). Questa figura di artigiano della parola e depositario della cultura orale in wolof si chiama gewel, ‘signore del cerchio’, perché in questa forma – come nel rito senegalese del sabàr o nell’antica orchestra greca, tutti i presenti partecipano attivamente al racconto. L’originaria performance collettiva è ben presente nello spettacolo proposto oggi al Pini, che compie vent’anni esatti: nel 1991 Mandiaye, ‘straniero’ in Italia, recitava con gli attori romagnoli delle Albe. Ora è lui a dirigere tre suoi attori venuti in tournée da Diol Kadd, Senegal, dove lui stesso ha fondato il progetto ‘Takku Ligey’ (cioè ‘lavorare insieme’): nel corso degli anni – attraverso la pratica teatrale, la coltivazione della terra e il turismo responsabile – questo sperduto angolo di savana si sta ripopolando, e i giovani contagiati dalla ‘malattia del teatro’ (come Mandiaye a suo tempo) ritrovano la speranza di un futuro nel loro villaggio. La comunità si fa teatro e partecipa attivamente alla rappresentazione, come nell’antica Atene. Non a caso il primo spettacolo prodotto da Takku Ligey Théâtre, scritto e diretto da Mandiaye, attinge alla commedia antica che di quella prima polis è espressione diretta: Leebu Nawet ak Noor (2006-2008) è il Pluto di Aristofane adattato su misura per Diol Kadd (si veda M. Treu Il gioco della ricchezza e della povertà. Aristofane in Senegal, “Stratagemmi. Prospettive teatrali”, 7, 2008: 111-138). Seguono Ubu Buur (2007), Sundiata (2009) e oggi Nessuno può coprire l’ombra. Pur non essendo uno spettacolo corale, rispetto ai precedenti, anche questo è una perfetta combinazione di Africa e Romagna, ma è anche incredibilmente vicino alla Grecia, al ‘realismo magico’ di Aristofane, all’atmosfera fiabesca eppure concreta del mito: ‘un mosaico di favole’, secondo Martinelli, quasi un Esopo di sapore africano, dove i due attori impersonano a turno due animali-totem, la Lepre e la Iena. Scambiandosi le parti, nei sette ‘quadri’ dello spettacolo, danno vita a una doppia coppia di opposti, complementari e intercambiabili. Ogni attore, come del resto ogni spettatore, incarna valori eterni e comuni a molte culture, come l’ingordigia che non porta a nulla, la prudenza che va lontano, il bene e il male: coppie antinomiche dove è difficile distinguere vizi e virtù, e dove la luce non copre l’ombra, come sottolinea il titolo. E se in apparenza la Lepre e gli altri animali subiscono senza ribellarsi i soprusi della Iena, ci pensa lei stessa a rovinarsi con le sue mani. Proprio come il coyote – animale-totem dei miti Nordamericani – sempre affamato e inventore di trucchi (da cui il nome di trickster) di cui Mark Twain dà una celebre descrizione (in Roughing it) e Chuck Jones un’immagine indelebile (Wile E. Coyote, cacciatore frustrato di una preda sfuggente): e chi come noi compiange quel coyote, intrappolato e martoriato dai suoi stessi trucchi, in questo caso non può che parteggiare per Iena, vittima di un destino a suo modo tragico. Quando crolla a terra, nel finale, arriva perfino a ricordarci il Penteo delle Baccanti, il cacciatore che diventa preda. E se ci viene in mente proprio quella tragedia – dionisiaca per eccellenza – vuol dire che, ripensando agli antichi Greci, tutto questo c’entra eccome, con Dioniso. Non solo qui. Non solo ora. Ma in ogni tempo e luogo del pianeta, come scrive Marco Martinelli nella sua postfazione (sopra citata) folgorante come Dioniso.

Martina Treu