Una chiazza nera si fa strada sul palcoscenico, allargandosi a macchia d’olio tra i danzatori impegnati in sequenze individuali; su alcuni di loro cala un’ombra, che tuttavia non riesce a bloccarne il movimento. Sembra di assistere a un disastro petrolifero, ma l’immagine muta rapidamente e il petrolio assume l’aspetto di giganteschi blocchi di ghiaccio, il cui scioglimento richiama la triste situazione planetaria che stiamo vivendo.
A sottolineare simbolicamente la penetrazione del caos nel cosmo una linea spezzata occupa ora il centro della scena, sostituendo il cerchio completo che regnava indiscusso fino a poco tempo prima L’armonia, l’equilibrio e il principio originario non sono più rintracciabili. La circolarità, che era stata alla base di Ocean, lavoro di Merce Cunningham, a cui il coreografo Richard Siegal si ispira per questo New Ocean, è violata. E con essa anche la metafora dell’origine stessa della vita, legata fin da Omero alla divinità greca di Oceanus, incarnazione del fiume che abbraccia le terre, delimitandole, e restando però illimitato.
La coreografia sembra incarnare quel ritmo spezzato: lo spettatore assiste allo sgretolamento di un universo di ghiaccio. Come cellule destinate a morire, i danzatori bloccano a turno il loro movimento, si stendono sul palcoscenico ed infine escono, per rientrare solo successivamente, in un momento tanto preciso quanto incomprensibile a chi guarda. La loro possibilità espressiva è programmata, scandita dall’inesorabilità del tempo, soffocata da quel fumo che viene nel frattempo fatto serpeggiare in scena, a simboleggiare forse l’inquinamento prodotto dalle attività industriali.
Ma ciò che rende maggiormente il senso di algida ineluttabilità della coreografia, è soprattutto l’assenza di contatto: per 80 minuti i danzatori sono insieme, ma profondamente soli. Nella minuziosa precisione e nella cura del dettaglio delle proprie esecuzioni non c’è nessun tocco, nessuno scambio di sguardi che superi la durata di pochi istanti, al punto da rendere a tratti angosciante la visione per lo spettatore. Torna così alla mente la canzone di apertura You don’t miss your water di William Bell, che prosegue con le parole ‘till your well runs dry: non ti mancherà la tua acqua, finché la fonte non diventerà asciutta. Un monito esplicito a ricordarci in che direzione corre questo “nuovo Oceano” e la responsabilità a cui siamo tutti, inevitabilmente, chiamati.
Agnese Di Girolamo
ph: Thomas Schermer
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview