di Vanghelis Theodoròpoulos
visto a Epidauro_17-18 luglio e a Aten_ 27 luglio

Dopo il debutto al Teatro di Epidauro (17-18 luglio), il regista Vanghelis Theodoròpoulos (Theatro tou Neou Kosmou) sta portando in tournée estiva il suo Aiace, riscuotendo grandi consensi. Pubblico e critica infatti apprezzano il fatto che si è evitato il rischio più grande che cela questa tragedia, cioè la caduta in smaccate espressioni del lutto o in altri parossismi giocati sul terreno realistico. Theodoròpoulos invece ha scelto la linea dell’essenzialità e della cura estetica.

In primo piano è il logos (nella bella traduzione di Dimitris Maronitis). Il sangue, ad esempio, è una traccia visibile solo nella locandina, con un Aiace dolente e “moscoforo”, che porta cioè sulle spalle un vitello mutilato e segno della sua vergogna. L’espressività di questa immagine però non viene ricreata sulla scena, che resta vuota e quindi pronta anche a trasfigurarsi in simbolo. Il decoro è primitivo: pali di legno e pelli tracciano i contorni dell’accampamento acheo, giunchi indicano il fiume non lontano e al centro l’orchestra lievemente rialzata è la zona privilegiata dei movimenti del Coro e dell’eroe.

Ciò che colpisce fin dall’inizio è la presenza in scena di tutti i personaggi: chi non è direttamente coinvolto nell’azione resta sullo sfondo, come in un tableau vivant. Di forte impatto è la scelta della musica dal vivo, suonata dagli stessi attori (trombe e liuti), sulle tonalità di marce funebri o di scoppi di gioia, e questa unione di musica ed essenzialità condensa un prisma di rimandi, come ha ben intuito Nikos Xenios (bookpress.gr), dai film di Anghelòpoulos alle atmosfere balcaniche di Kusturica-Bregovic.  Dal Coro dei rematori di Salamina si stacca un personaggio che imbraccia il liuto e introduce le danze, commenta cantando le vicende o funziona come guida tonale. Non è il Corifeo, ma una figura di ideale Rapsodo, creata dal regista per instaurare un dialogo tra le vicende tragiche e il cuore più narrativo del racconto epico.

Theodoròpoulos ha voluto evidenziare soprattutto lo scontro fra due mondi, cioè il nucleo politico della tragedia sofoclea. Da una parte c’è l’eroismo di Aiace, il puro, che mette l’onore sopra ogni cosa, e intorno a lui ruotano personaggi di profonda umanità, come Tecmessa e il fratello Teucro. La sua figura giganteggia anche da morto: in scena viene alzata l’enorme riproduzione di un frammento vascolare che rappresenta la scena del suicidio e questo Aiace trafitto domina come un totem, a monito e denuncia delle piccolezze umane. L’altro polo della tragedia è infatti costituito dalla politica, incarnata dalla tronfia superbia degli Atridi che ordinano di non seppellire il cadavere del suicida e hanno l’ardire di difendere la propria condotta, anche quando si macchia di compromessi e inganni.

In un’intervista al giornale Efimerida ton Syntakton (11.07.2015) il regista ha sintetizzato: “L’Aiace è la tragica storia di un eroe che diventa inutile per il nuovo corso degli eventi, quando il valore guerriero, il duello corpo a corpo, non sono più sentiti come necessari, perché a dominare è il potere”. Tale prospettiva si manifesta ad esempio nella scelta dei costumi: cappelli e gonnelloni tradizionali greci, le fustanelle, gilet arabescati di intarsi e ricami, e per il pubblico è immediato il richiamo all’epopea eroica del Risorgimento greco, le lotte di liberazione contro il giogo ottomano del 1821-1831.

Non a caso Theodoròpoulos ha fatto riferimento a Odysseas Androutsos (1790-1825), valoroso combattente che fu però tradito, accusato di collaborazionismo con il nemico turco e assassinato prima del processo. Questo Aiace sofocleo dunque raccoglie in sé la sorte di tutti quegli eroi che vivono sul confine di un’epoca, quando, dopo le armi, il potere passa nelle mani dei politici: chi non si adatta, resta schiacciato. Una lezione antica che riecheggia anche i destini dell’oggi, quando l’ideale (democrazia, Europa) è spesso sconfitto dalle logiche superiori della politica e della finanza.

 

Gilda Tentorio