Molti pensano che quello di Čechov sia un teatro di chiacchiera e che ciò che vi succede è che mentre il mondo va in rovina un gruppo di donne e uomini passa il tempo a blaterare. Tra un mazzo di carte, uno sbadiglio, un bacio rubato tra i roveti. Ma se si presta attenzione non solo a ciò che dicono ma al modo in cui lo dicono, ci si rende conto che le creature di Čechov, pur parlandosi di continuo, non si parlano davvero. Come se la frase, uscita dalla bocca, non riuscisse a raggiungere l’orecchio della persona cui era destinata. Capita anche in Tre sorelle, naturalmente. E dall’inizio. Ol’ga prende parola e rimembra la morte del padre, avvenuta un anno prima. Irina le chiede «perché ricordare?» ma Ol’ga non la sta neanche a sentire: «ricordo», «me ne ricordo benissimo», «mi ricordo tutto». Passa un minuto e la dinamica si ripete. Maša fischietta, Ol’ga la rimbrotta «non fischiare» ma lei persevera, come se la sorella non le avesse detto niente. Maša che si estranea e canta le strofe di una canzone, Ferapont che chiede dieci volte se i pompieri possono passare dal giardino, Anfisa che non sente l’ordine che le hanno appena dato. C’è in questo il naufragio delle parole – la loro perdita, il loro sciupio – e c’è la disfatta di ogni comprensione. Questa sorta di difetto percettivo-intuitivo-uditivo si manifesta di continuo, ora sprecando le risposte date alle domande appena formulate («le otto e un quarto mi hai detto?») ora interrompendo il colloquio già sul nascere (Tuzenbach e Irina: «ci restano una serie di giorni colmi del mio amore per voi», «Nikolaj L’vovič, non parlatemi d’amore, per carità»). Neanche i guasti del reale – e in Tre sorelle ce ne sono a bizzeffe – ridestano la capacità d’attenzione per quel che sta capitando agli altri: la minaccia di suicidio della moglie di Veršinin, l’incendio che distrugge la casa di Ferapont, la morte di una donna per le incapacità mediche di Čebutykin, il vaiolo che infuria a Zizicar, le persone assiderate dal gelo di Mosca o Pietroburgo. Niente procura un interesse durevole, niente schiude a una compassione che permane. Ottenuta la notizia, si torna a fare ciò che si stava facendo: Tuzenbach viene ucciso nel retropalco e in proscenio continuano i saluti; un caseggiato viene evacuato e Nataša si specchia, non trovandosi né spettinata né ingrassata. A che serve in questo sfacelo infra-umano dunque confessarsi, a che mi serve dirti ciò che provo? Meglio, come fa Andrej, scegliere un interlocutore che già in partenza non intende: «Se ci sentissi bene» – dice a Ferapont, che è mezzo sordo – «non starei a parlare con te». Eppure: «Quanto ho bisogno di parlare con qualcuno» aggiunge. Perché è qui che sta il peccato, e il dispiacere. Se Irina infatti sentisse Andrej, se Andrej sentisse Maša, se Maša sentisse Tuzenbach, se Tuzenbach sentisse Ol’ga… e via di questo passo, proverebbero rispetto per il punto di vista altrui e scoprirebbero di provare dolori simili, mancanze che si somigliano e una voglia comune di tornare nei luoghi e ai giorni in cui essere felici sembrava ancora possibile.
Ebbene, questa condizione in qualche modo mi pare caratterizzi la prima metà di Non tre sorelle, regia di Enrico Baraldi. In scena – tra una tavola adornata da un vasto completo per il tè, una pianola, un po’ di copioni, qualche sedia, microfoni ad asta, un ventilatore e un ritratto di Čechov piazzato sul fondo – abbiamo un gruppo di monadi, convenute qui un po’ per arte, un po’ per le direzioni sbagliate che sa prendere la vita. Alice e Susanna vengono dalla tortuosità di un percorso teatrale incentrato sulla riscrittura di Tre sorelle, che è stato interrotto due volte dalla pandemia; Yuliia, Nataliia e Anfisa invece sono state spinte via da Kyiv dall’attacco russo e hanno raggiunto l’Italia grazie al progetto Stage4Ucraine di Matteo Spiazzi. Abitano ora il palco del Teatro Fabbrichino a Prato: si scrutano, intrecciano i passi e si mettono in posa per una foto di gruppo in stile primo Novecento, toccandosi (una mano poggiata sulla spalla, un fianco che s’incastra a un fianco, un braccio messo attorno al collo): ma poi si parlano veramente? Per più di mezz’ora direi di no. Alice narra della differenza tra classici e teatro contemporaneo e della cancellazione di un debutto; Yuliia e Nataliia recitano la poesia che declamavano in onore dei reduci militari quand’erano bambine e ci informano del motivo per cui hanno scelto il teatro al posto di studiare chimica; Anfisa racconta l’ultima replica al Left Bank Theater il 23 febbraio 2022 mentre Susanna torna al terzo anno d’accademia, quando ha interpretato Irina: «Avevo il physique di rôle». Vero che si tratta di un dire organizzato, che tutte porgono lo sguardo indietro e che questo ci porta dal 2020 a quel che stiamo vedendo questa sera, ma è vero pure che siamo al cospetto di una serie di assoli che, più che rafforzare una compresenza, stanno definendo una diversità.
Ci si prepari, dunque, perché la frattura sta per avvenire.
Nataša entra dai Prozorov indossando un vestito rosa e una cintura verde («questa cintura non va», «è una stranezza» le dice Ol’ga per farci capire che la ragazza non ha gusto): tredici pagine dopo si prende la rivincita, prima scacciando Anfisa, poi mettendo in discussione il modo in cui parla Maša, infine facendo capire che d’ora in avanti è a lei che tocca il governo domestico. Osservare come si comporta significa apprendere come si penetra, ci si impossessa del territorio altrui e s’impianta una dittatura. Inizia arrossendo, alla fine del primo atto: due pagine dopo, all’inizio del secondo, s’aggira (come Lady Macbeth, scrive Čechov a Stanislavskij) per controllare che la servitù adempia ai propri compiti e che le candele siano spente. Stabilisce che le maschere non debbano venire, mette a dieta marito e figlio («per cena latte cagliato») e sfratta Irina perché Bobik dorma in una stanza con meno umidità. La sua è una strategia. Basta notarne certe frasi. Nella prima parte cita il figlio – il modo in cui sorride, cosa fa, come dice «mamma» – poi piazza l’ordine, imponendo disciplina. La forchetta trovata su una panchina, le urla contro la cameriera, la scelta di chi deve spingere la carrozzina. Prende per sé il denaro che Andrej ha ricavato dall’ipoteca, impone la presenza dell’amante e zittisce il marito, che infine relega (assieme al violino) nella stanza peggiore della casa: «lo gratti pure quanto vuole». Nel quarto atto ha progetti simili a Lopachin: «farò abbattere quel viale d’abeti, poi quell’acero. E farò piantare dappertutto fiori» annuncia. D’altronde chi può fermarla? Ol’ga vive al ginnasio, Maša sta dal marito, Irina si trasferisce; Čebutykin se ne va, i militari partono, Andrej giace nel cantuccio. In salone resteranno lei, Protopopov (con cui se la intende da anni) e i bambini. Era roba vostra, è diventata mia.
L’avanzata di Nataša è importante perché produce l’unico contrasto evidente di tutta l’opera. Avviene mentre fuori un pezzo di città va in fiamme, che è anche il momento in cui lei decide che la vecchia balia non serve più. «A me piace l’ordine», «non ci devono essere in giro persone inutili», «dobbiamo trovare un accordo» dice a Ol’ga e traccia quindi una linea: «tu al ginnasio, io a casa». «So quel che dico» aggiunge e, non fosse ancora chiaro, lo scandisce: «so-quel-che-dico». La conseguenza è il tentativo di Andrej (fine terzo atto) di spiegarsi con le sorelle: d’accordo, è andata come è andata, ma proviamo a capirci tra noi, perché siete arrabbiate? «Parlate chiaro». Il tentativo è inutile, provano sentimenti opposti.
In Non tre sorelle il contrasto arriva a metà dello spettacolo, quando la parte italiana incontra la parte ucraina. «Verrà una compagnia a fare un workshop e ci hanno chiesto di leggere Tre sorelle» narra Anfisa; «è successo che il secondo giorno una di loro ha preso la parola, volevano farci una domanda» spiega Susanna. La domanda è «perché Čechov?» e Susanna pensa «in che senso?». La conseguenza è un tentativo di comprendersi: diciamo le cose francamente, perché sì a Čechov, o perché no, «parlate chiaro» direbbe Andrej. Ciò produce una sfilata (dal fondo al proscenio, dove stanno due microfoni) di dichiarazioni motivazionali. Sono trentadue in totale, dodici dette da Susanna e Alice, venti da Yuliia, Nataliia e Anfisa. Risultato? Tredici sì, sedici no, tre forse. Variamente ripartite tra le interpreti, perché non c’è nettezza ma una gradualità invece e contraddizioni, resistenze, vorrei, non vorrei, sono convinta, ne soffro, lo adoro, non ci riesco, mi dispiace. E tuttavia «su questo non possiamo capirci» afferma in definitiva Nataliia (sembra di sentire Tuzenbach con Solenyj: «È chiaro che non ci capiamo»). D’altronde come potrebbero? Per Susanna e Alice Čechov sembra soprattutto avere a che fare col teatro: significa un’opera maestosa, avere un ruolo, fare un classico da recitare a voce piena e allenata, magari bevendo il tè in una scena in cui si usa il samovar. Per Yuliia, Nataliia e Anfisa invece la questione – senza ridurre d’un grammo l’importanza dell’autore – ha invece a che fare con la vita e riguarda i genitori, «che non vedo da molto», e gli amici, che stanno al fronte e di cui non ho notizia, e Kyiv, in cui vorrei tornare. Di più, riguarda quel che sono stata: perché da sempre penso e parlo (pure) in russo. Anche se ora non ne ho più voglia.
Ecco, sta qui la differenza, credo. Sta in questo scarto, questa disparità, questo dislivello per cui ciò di cui stiamo parlando passa il confine scenico e assume una concretezza esistenziale. Voi mi dite della neve, fatta coi copioni che vengono tritati e mossi da un ventilatore, mentre io ho in testa le giornate passate lontane dalla finestra, per non essere colpite. O gli addii che ho dovuto dire pur senza pronunciare mai la parola «addio».
In termini di dinamiche e visioni Non tre sorelle utilizza alcune delle soluzioni che troviamo sempre più spesso in scena, indipendentemente dall’opera e dalla compagnia: corpi frontali, uso predominante del proscenio, frasi dirette alla platea, utilizzo dei microfoni ad asta o stretti in mano, parziale distruzione di arredi o praticabili e il racconto del processo compositivo, per cui ti dico lo spettacolo che avremmo voluto fare e non abbiamo fatto o come siamo arrivati a recitare quel che stiamo recitando. Ma continuo comunque a legare Čechov alla messinscena e lo faccio proprio perché non sono la stessa cosa. Il «non» di Non tre sorelle, insomma, per me non è una negazione messa lì per affermare: davvero non siamo al cospetto di un’altra versione della commedia. Per due motivi. Primo. Perché realizzare un testo di Čechov presuppone un’assunzione di responsabilità verso ogni dettaglio, che non può essere abbozzato o trascurato: dalla totalità delle figure alle controscene, dalle didascalie alla coabitazione di comico e afflittivo, dalle immagini contenute nelle parole alla musicalità della scrittura (una melodia per Brook, un concerto di Rachmaninov per Ripellino, uno spartito orchestrale per Chiaromonte). Secondo. Perché non credo interessi a Baraldi produrre una regia di Tre sorelle. A cosa assisto dunque? A una messa in discussione del presente, forse, in cui tornano gli echi di una drammaturgia scritta tra l’estate e l’autunno del 1900. Ecco: i giorni d’oggi, e queste donne, ma il tutto contrappuntato dall’opera di Čechov. Di cui persistono certe risonanze.
Si tratta di micro-elementi, ad esempio. L’abito di Alice, blu come l’uniforme di Ol’ga; le quattro lingue (russo, ucraino, inglese e italiano) in cui viene tradotto il copione di Tre sorelle, pari alle lingue imparate in casa Prozorov (tedesco, francese, inglese e italiano); un’uscita di scena, compiuta sbattendo la porta laterale del teatro (Maša che abbandona la festa nel primo atto; Nataša che fugge attraversando il salotto nel secondo; Versinin quando dice «ho sbattuto la porta e sono uscito»); l’età di Anfisa, identica a quella di Irina, o il numero di attrici (cinque), che coincide col numero di figure femminili dell’opera di Čechov (Ol’ga, Maša, Irina, Nataša e Anfisa).
Oppure, possono essere frasi o circostanze di ritorno. Un mucchio di parole dette anche stasera («a Mosca!», «vendere casa, liquidare tutto e via», «guarda, nevica, che senso ha?»); il racconto di alcuni frammenti della trama originaria (i dialoghi tra Solenyj e Tuzenbach e tra Tuzenbach e Veršinin); Natalia e Susanna che mettono mano alla pianola (in Tre sorelle viene suonato il pianoforte); Susanna quando dice che vorrebbe piangere ma ha vergogna (capita a Nataša, ma piagnucolano anche Maša, Ol’ga, Irina) o Alice nel momento in cui – siamo all’inizio dello spettacolo – descrive le prove nel 2020: era maggio, si sono incontrate in un parco perché i teatri erano chiusi e la giornata era splendida tant’è che filtrava «la luce attraverso le foglie». «Ero felice» aggiunge. Ebbene, Ol’ga ricorda il funerale del padre, avvenuto a maggio, poi descrive la giornata, che è splendida («fa caldo») al punto che – anche se «non hanno messo foglie le betulle» – si possono tenere le finestre aperte e quindi «ho visto tanta luce e la gioia mi ha sconvolto l’anima», afferma.
O ancora, si tratta di spunti tematici o di dinamiche allusive. L’uso della metafora invernale per descrivere il proprio stato d’animo, l’evocazione continua del passato, la sensazione di essere state strappate dal nido, il terrore di essere dimenticate e la foto scattata all’inizio (la forma nostalgico-stantia delle messinscene di primo Novecento ma anche un rimando alle fotografie che Fedotik scatta in Tre sorelle), l’arredamento del tavolo (un’apparecchiatura di cliché ma anche le tazze, i piattini, le teiere e i bicchieri usati dal primo al quarto atto in Tre sorelle) e la distruzione di questo stesso corredo, a colpi di bastone: frantuma ogni presunta tipicità cechoviana, determina la visione delle macerie prodotte dalla guerra ma richiama anche le distruzioni contenute in Tre sorelle: la campana che crolla e si frantuma; l’orologio che Čebutkin fa cadere, riducendolo in poltiglia.
Contrariamente a quel che accade in Čechov («felicità e pace scenderanno sulla terra» vagheggia Ol’ga in Tre sorelle, «bisogna vivere!» dice Sonja in Zio Vanja, «passerò gli esami al ginnasio e lavorerò per aiutarti» assicura Anja ne Il giardino dei ciliegi) in Non tre sorelle non c’è alcun rilancio illusorio, nessuna ricerca finale di una consolazione, passata l’amarezza, subita la sconfitta. Certo, fa piacere sapere che in Ucraina i teatri hanno ripreso gli spettacoli ed è bello che si possa assistere in conclusione a un frammento di My Mom Disco, cui Yuliia, Nataliia e Anfisa stavano lavorando quando la Russia ha cominciato a bombardare. Così un’opera impedita dalla guerra trova pubblico in Italia, per qualche minuto. Ma non c’è sollievo. E allora a cos’è servito tutto questo?
In un saggio de La fragilità del bene, dedicato a l’Antigone, Martha Nussbaum ragionando su Antigone e Creonte scrive che tra gli effetti della guerra ci sono difensivismo estremo, semplificazione argomentativa, rigore assertivo e cecità emotiva. Le proprie ragioni si fanno legge al punto da diventare impermeabili a ogni argomento altrui. Il teatro, direbbe invece Chiaromonte, punta all’effetto contrario: adopera il contrasto per produrre discussione, mostra l’atto stesso del ragionare e genera spessore e complessità. «Forse non vogliamo capirci. E forse non dobbiamo capirci. Sembra che parliamo lingue diverse» dice a un punto Natalija commentando la differenza d’opinioni che le attrici hanno su Čechov e sul rapporto da tenere col teatro russo, adoperato (anche in questi giorni) dagli invasori come strumento di propaganda militare. Ma poi aggiunge: «è molto importante che possiamo parlarne». Ecco, Non Tre Sorelle è servito per parlarne. E (mentre tutto s’adopera perché ci siano fronti contrapposti, negazioni reciproche e dicotomie insanabili) non mi sembra poco.
Alessandro Toppi
foto di copertina: Luca Del Pia
NON TRE SORELLE
regia Enrico Baraldi
drammaturgia Francesco Alberici, Enrico Baraldi
con Susanna Acchiardi, Alice Conti, Anfisa Lazebna, Yuliia Mykhalchuk, Nataliia Mykhalchuk
dramaturg Ermelinda Nasuto
luci Massimo Galardini
assistente alla regia Uliana Samoliuk
produzione Teatro Metastasio di Prato
con il contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato
progetto Davanti al pubblico 2020 – Teatro Metastasio di Prato
con Fondazione Toscana Spettacolo Onlus / Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave / Kilowatt)