regia di Serena Sinigaglia

visto al Teatro Ringhiera di Milano _ 24 novembre-12 dicembre 2010

Sopportare sì, perdonare mai. Bisogna essere di pietra per sopravvivere alle estati soffocanti della Barbagia, terra secca di sentimenti e ribollente di passioni. Non c’è compassione, non c’è comprensione. Giudizio, accusa e pena certa, piuttosto. S’isposa ama Lenardu ma sta per essere condannata alle braccia di S’isposu. La “Traballadora docile come la lana”, come l’ha definita sua padre consacrandola donna dannata nei secoli, sente le mani che le mette in grembo l’amante poche ore dopo il sì, e sceglie. Sale sul crinale, setaccia, separa. Così è, se vi pare. Io andrò con lui, la mia anima è sua. Inutile ripetere al vento: «Voi, cosa fareste al posto mio?». Quello (perché, il nostro no?) è un mondo dove chi alza la testa per affermare la sua diversità, per urlare le sue obiezioni, per vivere come altri non vivrebbero, è condannato. Allora scocca l’ora del sangue. «È l’ora che ognuno conti sul suo sangue», dice Sa mama, madre dello sposo tradito da vendicare. E la tragedia è chiusa.

È brava la regista Serena Sinigaglia a rendere viva e vibrante la vicenda delle Nozze di sangue (Bodas de sangre), opera di Federico Garcia Lorca scritta nei primi anni Trenta del secolo scorso, storia di amore, odio e morte che il poeta ambienta in Andalusia, rivisitando un omicidio realmente avvenuto pochi anni prima. L’originale è un testo denso, corposo, che ricalca la struttura della tragedia greca ma è cosparso di elementi soprannaturali e surreali. La sfida per la Sinigaglia era dunque quella di lavorare su una nuova fruibilità e godibilità del testo, alla ricerca di una via che ne conservasse la forza espressiva (e, perché no, eversiva) e ne evidenziasse il vigore che viene dalla parola, dall’immaginazione, la forza della rappresentazione come cifra di lettura universale del particolare umano. Compito non facile, soprattutto quando si è alle prese con un colosso come Lorca. Ma è dai tempi delle Donne al parlamento che la regista ci abitua a strade e percorsi così abilmente costruiti e strutturati che il viaggio vale sempre la pena di essere intrapreso. Questa volta l’intuizione è quella di lavorare sul piano della lingua, perchè proprio in questa sembra risiedere una delle chiavi più incisive attraverso cui rileggere e reimpostare il testo. Alla ricerca di una traduzione che mantenesse integra e, se possibile, rinfocolasse la vividezza e il sanguigno dello spagnolo di Lorca, Sinigaglia sceglie il barbaricino come suo corrispondente.

Ed ecco che nascono le Bodas de sambene. La regista si serve della traduzione di Marcello Fois per creare un codice ibrido che mescola italiano e sardo. È un’idioma del quale non è necessario comprendere ogni singolo nome o aggettivo, ma che suona come una melodia di morte, fin dalle prime, incomprensibili, parole pronunciate da Sa mama, e che ci accompagna con rudezza verso l’epilogo di coltelli e disperazione. È un sottofondo tridimensionale che amplifica e sostiene la trama, ben interpretata dagli attori dell’Atir e dello Stabile di Sardegna, anche loro amalgamati in un impasto dove amore e odio si confondono, giusto e sbagliato appartengono allo stesso orizzonte, vita e morte sono in bilico sul medesimo crinale. Lenardu (coriaceo e inscalfibile Mattia Fabris) è il violento amante dal passato di delinquente che torna a cavallo a prendersi la sua donna, abbandonando moglie e creatura, mentre S’isposa (Sandra Zoccolan, pulita prova d’attrice di intensità e tecnica mirabili) combatte fino all’ultimo tra il desiderio di appartenere e quello di rifiutare il mondo cui è destinata. I personaggi incombono l’uno sull’altro, sono ombre invadenti e sempre presenti nelle vite degli altri (come nella scena dell’annuncio del fidanzamento). Tutti sono potenziali assassini, tutti assolvibili per ragioni che nessuno ha bisogno di spiegare. Così, nella seducente e inquietante scenografia di Maria Spazzi, orlata di un gigantesco scialle a frange, il tavolo nuziale viene costruito scardinando il pavimento inclinato dove si svolge la vicenda, lasciando a terra un buco che somiglia a una tomba, mentre l’uva, simbolo di vita e ricchezza nelle prime scene del dramma, diventa l’annuncio del sangue che sarà versato nell’epilogo. Su ogni azione regna incessante lo sventolio sincronizzato dei fazzoletti, angoscioso orologio che scandisce i rintocchi di morte annunciata. Sarà una mendicante a sciogliere l’intreccio, a indirizzare i boia verso i colpevoli. La Mendiga è il diacono della Luna, è lei stessa la morte (interpretata da Sax Nicosia, più convincente in questa veste che in quella di Luna-Prologo-trans): parla spagnolo, barbaricino, italiano, francese, inglese, tedesco, e tutte le lingue del mondo. Quando sarà il tuo turno, saprà come chiamarti.

Francesca Gambarini