di Maddalena Giovannelli
Un camper in giro per l’Italia e un mese di tempo per scoprire in che stato si trovano il sistema teatrale contemporaneo e il suo pubblico. Questa la sfida del progetto bùxula. Orientamenti ignoti, ideato da Andrea Perini nell’ambito delle attività di terzo paesaggio: un’impresa creativa che si ispira alle riflessioni dell’architetto paesaggista Gilles Clément sulla valorizzazione delle zone residuali. La ricerca porterà – nell’auspicio degli organizzatori – a una nuova idea di promozione e di distribuzione degli spettacoli, con la scommessa di identificare nuovi mercati, non per forza teatrali.
Come sondare allora le richieste e le esigenze del pubblico di oggi? Il team di bùxula ha messo a punto un questionario che è stato presentato, nelle scorse settimane, nei teatri di tutta Italia. Le domande proposte indagano le aspettative, i desideri, le idee dello spettatore (“in quali luoghi diversi dalla sala teatrale convenzionale le piacerebbe assistere ad uno spettacolo teatrale?”) ma anche le modalità di un possibile coinvolgimento (“in quale forma vorrebbe essere coinvolto nello spettacolo teatrale?”) o di un sostegno al teatro contemporaneo (“Sarebbe disposto a sostenere attivamente le attività degli artisti emergenti?”).
Abbiamo chiesto ad Andrea Perini – a ormai un mese dalla partenza – di condividere con noi riflessioni e risultati.
Siete in viaggio da un mese: elencateci qualcuna delle tappe percorse.
“Siamo partiti da Milano, non a caso da un luogo non teatrale: la fiera del consumo sostenibile Fa’ la cosa giusta. Poi siamo passati dal Festival Luoghi Comuni a Brescia, dove abbiamo avuto un importante confronto con gli operatori. E poi ancora siamo passati dal Teatro Portland di Trento, dalla Piccionaia di Vicenza, dal CSS di Udine, da San Sepolcro, dove abbiamo incontrato i Visionari di Kilowatt, dal Vascello di Roma…”.
Prime valutazioni del viaggio: se dovessi identificare un dato positivo e un dato negativo di questa esperienza?
“L’aspetto di maggior soddisfazione è la relazione umana. Abbiamo deciso di condurre questa indagine di persona, senza delegarla ai teatri, senza lasciare che il questionario si sostituisse a noi: viviamo volta per volta ogni luogo nel quale arriviamo. È una scelta faticosa e suicida dal punto di vista economico, ma abbiamo capito che la nostra intuizione era giusta: è proprio dal confronto faccia a faccia, dai momenti di condivisione che nascono in modo spontaneo, che stiamo ricevendo le risposte più incoraggianti.
Un dato negativo? Abbiamo preparato il nostro questionario alternando risposte multiple e spazi vuoti, in modo da lasciare la possibilità di un intervento libero dell’utente. Qui abbiamo riscontrato una certa resistenza da parte delle persone: spesso lo spazio viene lasciato vuoto, come a testimoniare la difficoltà di un contributo libero, privo da condizionamenti esterni”.
Avete cominciato ad analizzare i questionari? Quali sono le scoperte?
“Ecco il dato che è emerso con più forza dallo spoglio che abbiamo fatto finora: il pubblico cerca una relazione più intensa, più personale con gli operatori della scena. Piace l’idea del teatro nei cortili, condiviso tra una cerchia familiare o di amici. Addirittura è riemerso qualcosa che si tende a considerare sorpassato e polveroso: il dibattito. Sembra anacronistico, eppure il pubblico ci ha dimostrato che ha voglia e bisogno di discutere di più su quello che vede”.
L’aspetto più preoccupante?
“Il nostro progetto si ispira e si rispecchia molto nelle riflessioni che Monica Amari propone nel suo Manifesto per la sostenibilità culturale: il sostegno alla cultura deve essere messo in una prospettiva economica più che sociale. Invece le risposte ai nostri questionari dimostrano che nell’immaginario collettivo non siamo ancora pronti a guardare al teatro – e più in generale alla cultura – come a una funzione, qualcosa che produce degli effetti economici. Quando chiediamo “perché è importante sostenere le cultura?” questo aspetto non emerge mai. Proprio per questo, a nostro avviso, è così importante oggi lavorare in modo consapevole sulla produzione e la distribuzione”.
E gli operatori? Come accolgono il vostro progetto?
“La nostra impressione è che accolgano molto bene la proposta. Anche se non siamo più ventenni, viste le consuetudini nazionali veniamo considerati giovani. Il fatto che in un momento come questo un gruppo di ‘giovani’ si metta in gioco con un progetto auto-finanziato e senza una concreta ricaduta pratica provoca immediata simpatia: credo che paia loro un segno di speranza per il futuro! Rivolgersi al pubblico sta cominciando a diventare una priorità per ogni operatore: ed è proprio questo aspetto del nostro progetto a suscitare il maggiore interesse”.
In che direzione va cercato quindi il rapporto con il pubblico?
“Il discorso è molto complesso: coinvolgere in modo profondo il pubblico significa di fatto provocare un cambiamento negli stili di vita. Kilowatt è un esempio in questo senso: i visionari si trovano ogni settimana a vedere i video e discutono come pazzi sulle loro impressioni sui lavori. Il teatro è arrivato a modificare le loro vite. È quello che sta accadendo sul cibo: può capitare di assaggiare e scoprire alimenti di qualità diversa da quelli normalmente in commercio e di decidere che si preferisce essere consumatori migliori, cambiando il proprio stile di vita. Certo con il teatro è più difficile: ma proprio questa dovrebbe essere la sfida. Un risultato ottenuto con una relazione profonda (proprio come dimostra il caso di Kilowatt) è il più duraturo”.
Quali sono gli errori del teatro contemporaneo nel rapporto con il pubblico?
“La produzione teatrale contemporanea è spesso poco comprensibile e inaccessibile ai più. Cosa si fa quando si ritiene che una mostra o un evento artistico siano difficili da capire per il pubblico? Si provvede a creare delle ‘audio-guide’. Bisognerebbe creare qualcosa di equivalente per il teatro: un supporto esterno, che non vada a inficiare la struttura del prodotto artistico, ma che possa aiutare l’utente in difficoltà. Senz’altro questo è un problema che gli operatori, oggi, devono porsi. E credo che anche la richiesta di dibattiti e discussione – emersa così fortemente dai questionari – vada interpretata in questa direzione”.
Cosa vi portate a casa? In che modo metterete in gioco i risultati di questo viaggio?
“Questo viaggio è come un enorme e anticonvenzionale brainstorming: tutti i dati che stiamo raccogliendo sono un punto di partenza. Per valutarli ci faremo aiutare da Luisella Carnelli di Fitzcarraldo, che si occupa di ricerche statistiche. Ci è ormai molto chiaro che per attuare un cambiamento profondo abbiamo bisogno di personalità con professionalità anche molto differenti. Per esempio vorremmo coinvolgere degli esperti di economia, capaci di dare uno sguardo diverso sul mondo del teatro. Insomma, le sfide che vogliamo lanciare al mercato della distribuzione sono moltissime: il vero viaggio comincia proprio dal nostro ritorno”.