di Elfriede Jelinek
regia di Chiara Guidi
Visto all’ interno della rassegna  “Stanze. Esperienze di teatro d’appartamento a Milano” _ 16 novembre 2015

A Parigi gli echi degli spari del terribile venerdì di sangue si sono appena spenti; comincia il tempo della paura e del dubbio, e una piccola truppa di spettatori milanesi trova rifugio fra i volumi di una biblioteca.
Il luogo: ci troviamo nel cuore della città, per l’appuntamento autunnale della rassegna “Stanze”. Apre le porte al teatro la Biblioteca SIAM 1838 (Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri), che custodisce la prima edizione italiana dell’Enciclopédie Universelle di Diderot e D’Alambert.
Il testo: Nuvole. Casa di Elfriede Jelinek (Nobel Letteratura 2004), penna corrosiva e sferzante, autrice di testi teatrali ostici, che mostrano una realtà frantumata e sull’orlo dell’abisso. Dall’anno scorso l’Emilia Romagna è attraversata dal Festival itinerante “Focus Jelinek”, un lungimirante esperimento di “festival per città”, che è poi approdato anche a Roma: la rassegna “Stanze” ne ha portato a Milano un unico ma potente distillato.

La sfida è ardua: l’artista cesenate Chiara Guidi, maestra di ritmi, timbri e sonorità della Socìetas Raffaello Sanzio, opta per una restituzione criptica e ambiziosa, una sorta di sperimentazione del logos. Ciò accade fin dal titolo originale (Wolken. Heim.), che è una frattura linguistica: ai classicisti suona immediato il richiamo alla Nubicuculia degli Uccelli di Aristofane, utopia eterea ove si insinuava anche l’ambiguità della politica. Qui restano “Nuvole” e “casa”, parole che aspirano a disegnare il perimetro di una lingua-rifugio vocalizzata eppure sempre così fragile.
Ascoltiamo stratificazioni verbali, una tessitura continua che è al tempo stesso mosaico di parole “delocalizzate”, estrapolate e ricomposte a creare conflagrazioni di senso, a partire da autori fondanti come Ηölderlin, Kleist, Heidegger, Benjamin. Una sorta di ipertesto, cioè di “libro-contenitore di libri”, una polifonia di voci che la Guidi restituisce attraverso le modulazioni della sua voce, in ritmi sincopati o solenni, e all’improvviso sussurri, grida, vibrazioni.
Ecco perché, con effetto speculare, il luogo più adatto per questa performance diventa una biblioteca storica (la tournée si è svolta tra la Malatestiana di Cesena, l’Archiginnasio di Bologna, la Vallicelliana di Roma, e ora la SIAM milanese), intesa come coralità di voci che continuano a cercare il dialogo con noi.

Nella semioscurità della sala ottocentesca, gli spettatori prendono posto attorno a un grande tavolo d’epoca in legno massiccio, quasi in attesa che si compia un rito. Sulla sedia trovano un ponderoso volume, da tenere sulle ginocchia. È il primo gesto necessario all’ascolto, quasi un lasciapassare. Intorno a noi, libri-spettatori muti, si affacciano da scaffali e vetrine: noi siamo di passaggio, loro invece restano, immobili eppure sempre in moto, veicoli di parole e civiltà, e generosi ospiti.
Il contrabbasso di Daniele Roccato introduce questo “viaggio” e lo accompagna con sequenze di graffi e stridori, ruvide esplorazioni dissonanti, a sottolineare una materialità sonora dell’inquietudine. Senza una linea narrativa, comincia poi a dipanarsi il logos ardente della Jelinek, in una ripetizione ossessiva del binomio e “noi” e “casa”, che rivela però tutta la sua debolezza effimera: più viene scandita la sicurezza egoistica della nostra presenza al mondo, più sembra disegnarsi un fuori incombente di apocalisse.

Wolken. Heim è un atto di accusa contro il nazionalsocialismo (“Di spazio abbiamo bisogno”; “Innocenti sempre le nostre mani”) e contro il “mattatoio della Storia”. Il pensiero oggi non può non correre a Parigi: la civiltà occidentale racchiusa in questi volumi può ancora darci un rifugio sicuro e una risposta?
Nel dialogo tra la voce e il contrabbasso intervengono le ripetute intrusioni di un adolescente (Filippo Zimmermann), figura enigmatica che cerca l’interazione con il pubblico, ma risulta elemento a tratti enfatico-didascalico perché sottrae la profondità delle parole che continuano intanto a scorrere. Forse rappresenta l’innocenza che rinasce dal seme insanguinato della Storia? Forse il contrasto fra la volontà e l’impotenza del dire (come quando cerca di intagliare uno zufolo di canna e non riesce a suonarlo)? Certamente è un guardiano gentile dei libri, che sistema delicatamente in una ideale torre di Babele salda e stabile, coronata dalla riproduzione del famoso quadro di Paul Klee Angelus Novus.

Molto efficace il finale, che rinvia alla famosa pagina del filosofo Walter Benjamin sull’Angelo della Storia, capace di uno sguardo complessivo sul tempo del genere umano, catena infinita di tragedie e orrori. La bufera del progresso lo spinge verso il futuro, ma il suo sguardo non può staccarsi dal passato. Così la Voce (Chiara Guidi) e l’Angelo (Zimmermann) escono dalla biblioteca camminando a ritroso: il futuro è là fuori, ma non possiamo dare le spalle al passato, alle sue macerie e al suo sangue. Ieri era Auschwitz, oggi Palmira e il Bataclan.

Gilda Tentorio