Ops, mangiato! La carta stagnola, spoglia delle sue viscere, rimane vuota sul tavolo. Gli altri cioccolatini corrono a nascondersi nel sacchetto di stoffa, che trema dallo spavento. Una compressa effervescente veste adesso la pelle del cioccolatino, penetra nel guscio morto per assumere una nuova identità. Ma la silhouette esile tradisce la sua vera natura: la conseguenza non può essere che l’odio da parte dei cioccolatini e il definitivo allontanamento del farmaco. Sola, la compressa opta per l’unica soluzione possibile: affogare in un bicchiere d’acqua.

Alka Selzer (una tragedia frizzante) è il primo tragico suicidio che accade sul tavolo di Olivia Molnár, animatrice, spettatrice e assassina degli oggetti d’uso quotidiano interpreti dello spettacolo. Alka Selzer; Pita, una pepita di caffè brasiliana, e Jorg, un fiammifero svedese che si accende d’amore per lei; la mappa di Budapest, percorsa in due passi; qualche nocciolina nella tasca sinistra che può sempre servire: ecco alcuni dei protagonisti di Piccoli suicidi, gemma del teatro d’oggetti, che, dopo un viaggio per l’Europa lungo quarant’anni sotto la guida del suo autore Giulio Molnár (dal debutto nel 1984 Piccoli suicidi è stato rappresentato in Francia, Spagna, Germania nelle versioni di altre artiste e artisti) torna in scena in Italia grazie alla figlia, Olivia.

Sul palco del Lavoratorio vediamo soltanto un tavolino in legno, sopra un’ abat-jour di carta che illumina la scena buia. Entra un’attrice in sgualciti abiti oversize. Sembra provenire da un’altra epoca. Indossa una giacca che pare non essere la sua: nella tasca sinistra ha degli orologi al quarzo, nella tasca destra un pugno di arachidi. Si siede al tavolo: «Sono le 21.21, possiamo iniziare: io mi chiamo Olivia Molnár e stasera mi suiciderò due volte su questo tavolo».

L’attrice-animatrice non è una burattinaia ma una protesi umana dei suoi oggetti-attori, veri protagonisti dei drammi che vivono e per cui muoiono, in tutta la dignità del loro essere materia che si trasforma, da chicco, a polvere, a liquido. Gli oggetti, al contempo personaggi e performer dello spettacolo, non rappresentano vicissitudini umane, né assumono funzioni simboliche, ma portano in scena soltanto loro stessi. Olivia Molnár partecipa alle tragedie dei suoi protagonisti, ride con loro, piange per loro e fa sì che la loro condizione utensile sublimi un anelito poetico. È forse proprio l’esistenza esclusivamente materiale degli oggetti a rendere così drammatica la loro tragedia: senza il filtro della metafora, questi vengono semplicemente usati, e muoiono. La banalità della loro fine non chiede interpretazioni né cela significati nascosti: accade. La morte dell’oggetto arriva puntuale e impietosa, tangibile e inequivocabile. Inserito in un contesto diverso da quello quotidiano (ovvero uno spettacolo teatrale) il ciclo di vita dell’oggetto, proprio perché funzionale, lascia spazio a nuovi immaginari e pensieri esclusivamente soggettivi, forte della sua esplicita ordinarietà.

La manovratrice può improvvisamente trasformarsi in antagonista: farsi manipolatrice, oppure dea ingannatrice e moira che determina l’uscita di scena dell’oggetto, portando alle estreme conseguenze lo scopo per cui è stato creato. Così il cioccolatino viene mangiato, il chicco di caffè tostato e il fiammifero acceso. La doppia natura dell’animatrice si deve al fatto che è un alter-ego ambiguo, per citare le parole dell’autore Giulio Molnár nel suo libro Teatro d’Oggetti; ovvero non parteggia per un solo oggetto, non lo impersona, ma è al servizio della collettività, composta dalla pluralità dei singoli performer inorganici. La funzione della manovratrice in questo caso è quella di dare movimento e voce a tutti gli oggetti-attori dello spettacolo: anche tra gli oggetti, così come tra gli esseri umani, esistono invidie, competizioni, violenza, pulsioni che se non controllate possono portare all’autodistruzione.

Lo spettacolo si conclude con una “poesia sul tempo” articolata in tre atti: Olivia Molnár torna sulle tracce dell’infanzia del padre. Attraversa una Budapest in miniatura, calpestandone la mappa topografica e accorgendosi di come, quando si diventa grandi, tutto rimpicciolisca, tanto che le zie si sono ridotte a una foto tessera. Nel secondo episodio l’artista ricorre ancora a un registro ironicamente assurdo: con freschezza fanciullesca sorprende il tempo, fatto di tanti granelli di caffè e qualche nocciolina, di spruzzi di schiuma da barba e noci di cocco che rotolano, nel tentativo di ristabilire un ordine che è impossibile da prevedere. L’ultimo quadro di questo trittico sul tempo è un esplicito richiamo all’infanzia: il “sonno degli orologini” è una chiosa amara a un’irriverente e materica rappresentazione dell’ineffabilità della vita, che si ripete ogni giorno e risponde solo al tempo della sua fine:

Andate a dormire bambini!
A morire?
Ho detto a dormire!
Mamma cosa fa il tempo quando gli orologini dormono?

 

Elio Rosalba Bonaccini


foto di copertina: Leonardo Modena

PICCOLI SUICIDI
di Giulio Molnár
con
Olivia Molnár

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