Quando si dice una scena vuota. Sul palco della Casa Teatro Ragazzi di Torino c’è solo uno schermo, una superficie su cui si inseguono fotografie di alberi e paesaggi ritratti da Paola Codeluppi che, virati con colori accesi e innaturali, percepiamo simbolici ma che nessun foglio di sala ci spiega. Nessun appiglio, ma anche nessuna distrazione: siamo subito messi alla prova, e con noi la nostra attenzione. Ed è forse proprio questo ciò a cui punta Milena Costanzo in Oh no, Simone Weil!, il monologo ispirato alla filosofa francese presentato in prima nazionale al Festival delle Colline Torinesi.
Del resto accettare il vuoto, sopportarlo, e così accogliere tutta la difficoltà del caso, ponendo l’accento sull’essenza stessa dell’essere umano è al centro del pensiero della Weil. Il tempo di rendersene conto ed entra in scena Milena Costanzo carica di uno zaino ingombrante, che fa cadere a terra come si liberasse di un peso superiore a quello che aveva sulle spalle. È uno zaino pieno di pensieri, quei pensieri e quegli incubi che hanno costellato la vita di una donna definita anarchica, mistica, rivoluzionaria e che fu professoressa, filosofa, teologa e militante. E così, quasi di forza,siamo portati dentro quel suo scorrere, di intuizioni e riflessioni, in un moto che ci sbatte da una parete all’altra in balia di ragionamenti che seguono una logica tanto ferrea quanto illimitata. Privo di confini era infatti il pensare della Weil, che all’integrità del carattere univa una passione fuori dal comune verso tutto ciò che considerava verità, nella sua espressione più dura, implacabile e perciò onesta.
In questo ultimo capitolo della Trilogia della Ragione – cominciata con quelle donne fuori dagli schemi che erano Anne Sexton ed Emily Dickinson – la Costanzo aggiunge una nota provocatoria e spiazzante, rapportandosi al pubblico, proprio come avrebbe fatto la Weil, senza filtri. “Qui posso fare ciò che voglio!” Esclama dal palco, come a giustificare l’assenza di ogni elemento spettacolare.
E allora, come spettatore, bisogna scegliere: lasciar affiorare l’insofferenza e il fastidio per una posizione autoritario-intransigente, stare al gioco e accettare quella che lì per lì può sembrare anche una presa in giro, oppure lasciarsi travolgere. Solo nel secondo caso, pian piano, si può comprendere che quella posa è solo un modo per infrangere quelle barriere mentali che ancora innalziamo tra noi e la nostra proiezione della realtà. Anche quella rappresentata sul palcoscenico. È solo così, seguendo questo flusso ostico che ci pungola il fianco, che quel vuoto della scena si riempie di senso. Un senso innanzitutto poetico che rende libero il passaggio verso pensieri a , taglienti e perturbanti; e anche senza accedervi del tutto consapevolmente, saranno loro a, prendersi spazio nella nostra testa! Ecco allora la “bellezza della fragilità”, la necessità di un “sacro autentico”, la fatica e la libertà del pensiero, “l’impossibilità del desiderio”; e ancora: la “verità del niente” e soprattutto “la piccolezza dell’uomo”, limite che non gli impedisce però di farsi domande su domande, di interrogarsi sul perché e il come delle cose. Il tutto senza temere il silenzio, che anzi in realtà riempie quel vuoto di cui a volte abbiamo paura.
Quello della Costanzo è un lavoro complesso, più intricato di ciò che appare al primo sguardo. Un’opera capace perfino di entusiasmare e far desiderare a chi si è perso le prime due tappe della Trilogia, di vederle tornare in scena per potersi fare travolgere anche da quelle, ricominciando tutto da capo. Del resto non è forse questa ciclicità, questo desiderio continuo di rinnovamento che anima i movimenti della Costanzo sul palco? Non è forse “il coraggio di dire io non sono niente, e partire dal niente per ricominciare”, il segreto del nostro vivere?
Giulia Maria Basile
Oh no! Simone Weil
di e con Milena Costanzo
assistente alla regia Chiara Senesi
foto in scena Paola Codeluppi
Visto a Casa del Teatro Ragazzi e Giovani nell’ambito del Festival delle Colline Torinesi_14-15 giugno 2018