«Libertà, soldi, carriera, sesso, vita, soldi, stato, normalizzazione, prestazione, pretesa, tradimento, ego, società, soldi, amore, spettacolo, crisi, solitudine, soldi, desiderio, colpa, odio, brama, invidia, soldi, pressione, successo, soldi, sesso, studio, lavoro, previdenza, contraccezione, billyboy, durex, ritex, gravidanza, sicurezza, ottimismo, progettazione, fiducia, soldi, madre, successo, riconoscimento, soldi, tecnologia, Facebook, felicità, depressione, attacchi di panico, psicosi, accessi di paura, solitudine,…»

Iniziamo a parlare di Oltre Fukuyama (Jenseits von Fukuyama) dell’austriaco Thomas Köck (classe 1986) con l’esercizio di dizione e di autodisciplina che lui stesso raccomanda agli attori prima di andare in scena. Un lungo elenco di parole che, dice Köck, «nella mia cultura hanno una notevole importanza, anche se spesso il loro senso non si rivela immediatamente». Parole su parole (l’elenco sarebbe molto più esteso) che si ripetono. Prima ancora di calarci nel testo, già intorno a noi si costruisce un’atmosfera, affiora una certa ansia, la Nervenleben 2.0 (per dirla con Simmel) si affaccia sulla scena prima di ogni personaggio. Parole, parole, parole, senza più un senso, dal senso distorto, con troppo senso.

Oltre Fukuyama è un testo del 2014 e non parla di Giappone, né di energia atomica. Parla di disastri, questo sì, di apocalissi, o meglio, del tempo in cui viviamo, che sembra già un tempo post-apocalittico. Un tempo in cui la storia è finita da più di trent’anni, l’ambiente è già irrimediabilmente sconvolto e nemmeno la felicità individuale si sente tanto bene. Anzi, forse è proprio la felicità di per sé ad aver causato tutto il resto. Ma andiamo con ordine. L’individuo. La comunità. L’io. L’ambiente. Non c’è espediente drammaturgico più consolidato per restituire la perenne tensione tra questi poli che il coro. Ed è infatti il coro il vero protagonista del testo, il «coro distrutto delle attese disattese», come lo definisce l’autore, «tante voci in conflitto tra loro, piene di ricordi, di delusioni, di brandelli, di fallimenti. Tutti menano botte a destra e manca, strillano a volume e altezza diversa, come un secolo che muore lentamente di emorragia interna e, pur messo alle strette, continua ad affermare nella sua agonia che bisogna comunque andare avanti».
Ma in scena ci sono anche i personaggi, che sono «stressati, esagitati, sfiniti per il troppo lavoro, isolati, idrofobi, ciononostante mantengono questa insopportabile posa da “tuttocchèi”». Personaggi e coro sono in contrasto, ma sono anche le stesse persone (letteralmente, gli stessi attori). Dal coro si entra senza soluzione di continuità nel dialogo e viceversa. Il coro narra, commenta, anticipa i pensieri dei personaggi, gioca con il tempo e le allegorie, sposta l’ambientazione della scena con la rapidità di una battuta. Al contempo, però, i membri del coro sono i personaggi stessi che si osservano da fuori, in un vicolo cieco di auto psicanalisi. Fin da subito Köck confonde tra loro individuo e comunità: non c’è un eroe che si oppone alla massa, non c’è una società che contrasta un tiranno, non c’è il capro espiatorio che redime il gruppo, né il gruppo che cura il solitario. Il drammaturgo sembra piuttosto dire che nel nostro tempo l’individuo è impotente e lo è anche la comunità. Le gerarchie e i rapporti di causa sono a brandelli.

Beyond Fukuyama nella versione di Renzo Martinelli in scena al Teatro Filodrammatici di Milano nel 2019

La scena è ambientata in un “Istituto di ricerca per la felicità e il futuro”, che ha le fattezze del tipico, stressante, competitivo ufficio contemporaneo. L’ufficio. Il luogo della depressione di Estensione del dominio della lotta di Houllebecq, dei silenzi di Tokio Sonata di Kiyoshi Kurosawa, dello spietato splendore di Mad Men e dell’ironia imbarazzata di The Office.
Anche chi non ci ha mai messo piede conosce già tutto. Le postazioni, i computer, gli avanzamenti di carriera, il tipo anonimo che ripete che va tutto bene e che a una certa dà di matto… Questi sono i personaggi di Oltre Fukuyama. Si odiano, vorrebbero sbranarsi, ma si mantengono educati, rispettosi dell’etichetta del buon collega. Ogni tanto il coro deborda in loro e per un attimo i personaggi si insultano, si dicono in faccia cosa pensano davvero, poi le convenzioni riprendono e riprende, come se niente fosse, la routine dell’ufficio. Altre volte i personaggi si ribellano a questo sciame di voci che li circonda e intimano al coro: “SILENZIO!” Ma, appunto, i personaggi sono il coro, il coro i personaggi, e da questa schizofrenia non c’è via di fuga.

Il luogo più importante dell’ “Istituto per la ricerca della felicità” è la «stanza della media», un «salotto arredato nella media di un appartamento medioborghese di una famiglia media con reddito nella media». Come ci spiega Phekta, la donna a capo dell’istituto, «è la stanza della fascia maggioritaria di elettori. È la stanza in cui questa nazione ritrova sé stessa. La robusta famiglia tedesca: Lui, fermo in eterno a 49 anni, Lei, dimenticata dalla gioventù, ferma in eterno poco sopra i 40, atteggiamento sempre cortese e liberale».
Phekta rappresenta tutto ciò che la generazione precedente a quella di Köck ha sbagliato. «Con i miei soldi» dice, «mi comprerò una pietra tombale dorata e ci farò incidere sopra a lettere di platino: figlia degli anni ’60!». È una baby boomer, una di quelli che hanno inquadrato la società entro una media e hanno determinato quale felicità le spettasse. La nostra società intera è irrimediabilmente intrisa di questa mentalità. Come racconta il coro in una sintesi degli ultimi cinquant’anni di storia occidentale, «abbiamo trombato come matti, abbiamo sballato a più non posso e abbiamo depredato il nostro sistema fino all’estremo». Abbiamo estromesso il senso dal nostro mondo e, ora che sarebbe tempo di riportarlo dentro, nessuno sa più bene dove lo abbiamo ficcato.
Mentre seguiamo i disagi quotidiani dentro l’ufficio, il Fuori — oltre le vetrate dell’istituto, oltre le statistiche — freme: «La media è sfuggita al controllo e prova la rivolta perché è troppo tempo che cerchiamo di calcolarla. Ci sono focolai ovunque. Folle inferocite si stanno radunando per entrare qua dentro». I personaggi cercano riparo nella stanza della media mentre fuori monta la tempesta. Questa fantomatica “medietà” doveva porci tutti al riparo, determinare i parametri del vivere bene e consegnarci la serenità, perché allora nessuno è felice? Perché né Dentro né Fuori si trova la felicità?

Jenseits von Fukuyama per la regia di Gustav Rueb al Theater Osnabrück nel 2014 (© Uwe Lewandowski)

E proprio sulla felicità, sulla sua origine, Köck si interroga, costruendo un vivace bignami di Storia del Novecento con un bellissimo incipit: «L’invenzione della felicità è una tragedia». Nelle panoramiche sarcastiche come questa il testo dà il meglio di sé e stuzzica maggiormente la fantasia di un regista. Si storce un po’ il naso, però, davanti a una presentazione del mondo USAcentrica. Quello è il modello che monopolizza lo spettacolo, quello è il modello che si critica, va bene. Eppure c’è sempre il sospetto che rimanga fuori una parte di noi che sfugge alle semplificazioni netflixiane, e che, paradossalmente, ci mostriamo più statunitensi proprio nel momento in cui prendiamo il loro stile di vita come bersaglio principale delle nostre critiche. La felicità, dice Köck, è un dono della scienza: gli antidepressivi. Il sistema ci persuade di non avere colpe, il sistema ci dice di non c’entrare niente, che il problema siamo noi, che siamo solo depressi. «Tutti hanno iniziato a ingurgitare felicità di tutti i colori». Tutto vero. Tutto vero? È così, o stiamo descrivendo la felicità al di là dell’Atlantico? È tutto così globalizzato da poter essere analizzato allo stesso modo? Sì, Köck ci dice che rincorriamo un modello di mondo, di progresso, di felicità assurdo e autodistruttivo che ha avuto origine negli USA. Ma, man mano che si sfogliano le pagine del testo, nel lettore si affaccia il sospetto che sia proprio attraverso la sua stessa critica che si alimenti questo modello: il demone di cui si continua a parlare si ingrassa coi nostri discorsi. Il bersaglio ha preso troppo spazio e l’abbiamo confuso con le pareti della stanza. Il decennio emblema della “felicità chimica made in USA” sono ovviamente gli anni ’90. E funziona bene teatralmente quando sulla scena compaiono proprio loro, gli Anni ’90, e iniziano a dialogare con la Storia.


Da Oltre Fukuyama (Traduzione di Adriano Murelli)

– Un bell’applauso per l’ingresso de GLI ANNI ‘90!

– GLI ANNI ‘90: Io sono GLI ANNI ‘ Sono storia. Grazie, signore e signori, ma non ho altro da offrire. Con me le società occidentali hanno raggiunto uno standard di vita che non può produrre ulteriore felicità, lo si definisce anche ‘paradosso di Easterlin’, ma dato che io sono GLI ANNI ‘90 non vorrei entrare troppo nei dettagli, assolutamente – ma questo non è un problema mio, piuttosto è di nuovo un problema della Storia, perché, egoista e irrequieta com’è, la Storia mi è passata semplicemente di fianco, fino a un minuto prima sei parte della Storia e poi – zac! – ti ritrovi a rincorrerla stanco e spossato, per riprenderti avresti bisogno di uno spirito del mondo bello vigoroso e invece ti riesce solo di acchiappare una fine della Storia che si dibatte come un pesce appena pescato. Ma – cosa stavo dicendo? Ehi, fermati un attimo!

– Vecchia troia di una Storia! Ehi, dico a te!

– La Storia: Dio mio! Tutti questi fantasmi che ti circondano in eterno, ti ronzano sempre attorno proprio quando avevi pensato di esserteli finalmente lasciati alle spalle, eccoteli invece di nuovo, ritornano, come zombie redivivi davanti al Signore, e questo solo perché non ti riesce di liberarti dai tuoi spettri! Ehi, ci eravamo separati! Non era servito a nulla!

– GLI ANNI ‘90: Scusa un attimo! Chi sarebbe qui il fantasma? Di’ un po’! Questa cosa mo’ non mi va proprio giù, solo perché forse non sono più in forma come una volta, ma va be’, me lo rinfacci proprio tu che sei già Storia e insomma, adesso di’ le cose come stanno, sei stata tu a non presentarti al nostro appuntamento.

– La Storia: Prego?

– GLI ANNI ‘90: Avevamo un appuntamento, te lo sei scordata?

– La Storia: Ma che vuoi, lasciami stare, via!

– GLI ANNI ‘90: Come ti permetti di arrivare in ritardo per la fine della Storia?

– La Storia: Ma fammi il piacere, sempre queste smanie apocalittiche, via. Non è che l’ennesima generazione disperata che ha deciso di scoprire la fine della storia, niente di più.

– GLI ANNI ‘90: Ma come ti permetti di arrivare in ritardo per la fine della Storia, non esiste, adesso fermati, Storia, ferma lì, non serve a nulla accumulare rovine su rovine, ti acchiappo lo stesso, non riesco a capire perché continui a volermi sfuggire, hai la faccia stravolta, di’ un po’, non stai bene? Guarda, ho un intero assortimento di pastigliette colorate, per ogni spirito c’è quella giusta, nessuno resta senza, e di sicuro non la Storia, che finalmente oggi verrà raccontata fino alla fine. Stai ferma, ti dico.

– La Storia: Lasciami.

– (GLI ANNI ‘90 con un sussulto estatico di gioia scaglia la Storia contro la parete.)

– GLI ANNI ‘90: Un attimo prima stavi dentro il mondo, e zac! sei di nuovo storia, io non riesco proprio a capire.


C’è dell’ironia, del sano cazzeggio, qualche metafora illuminante, ma non ci sentite, sotto sotto, anche un po’ di moralismo? Di giustizialismo teatrale? Ne parleremo più avanti, per ora torniamo nella sala della media, dove sono barricati i personaggi. «Siamo bloccati in una stanza statistica,» dice l’impiegato al capo, «le sue grandi istituzioni stanno tirando gli ultimi. Lei è un valore superato che alla fine della storia si è chiuso in un bunker con un collaboratore sottopagato». La scena sta per collassare, sembra che debba arrivare finalmente una vera apocalisse, quando ecco che ritorna il coro. Il “resto inaspettato della storia” piomba sulla scena.
Il coro sono i personaggi, ma sono anche gli attori, coro è l’autore, è il pubblico, è la società occidentale intera. Il testo perde completamente la trama e si trasforma in una sorta di grande catarsi confessionale sulle colpe del nostro tempo: uno sfogo autoassolutorio, una dichiarazione di impotenza. Abbiamo distrutto il mondo, scongelato i ghiacciai, inventato una felicità illusoria, «tutto questo è un’unica merda gigante e noi ci siamo dentro fino al collo. Mi dispiace. Che ci siamo dentro fino al collo. Che situazione del cazzo. Mi dispiace! Mi dispiace anche per voi, che ci siete dentro con me».

Da qui fino alla fine il testo diventa un lungo elenco di scuse.


Da Oltre Fukuyama (Traduzione di Adriano Murelli)

– Sì, io mi scuso con tutte le fosse comuni delle possibilità, con tutti i cosiddetti danni collaterali della libera economia di mercato […]

– Mi scuso per i 2053 test atomici dal 1945 in poi, per nientemeno che 14 crisi economiche mondiali dal 1950 in poi, e mi scuso con 5,4 milioni di morti in guerra nel mondo dal 1955 in poi. […]

– Mi scuso con il mondo libero per il neoliberalismo che con il suo irresistibile charme è riuscito a impossessarsi di tutto, ha sfruttato tutto quanto e ci depreda di tutto, perfino dei nostri sogni! […]

– Mi dispiace per le tre ore che ho urlato al telefono, per le rampogne in metropolitana, per la nostra amicizia rovinata, per il preservativo usato di fianco al letto, per i litigi tra me e tuo padre, per la barra di ferro tra le tue gambe, per la situazione precaria in cui mi trovo oggi, per gli affitti ingiustificati di Berlino, per i copertoni in fiamme, le rivolte, i pretesti, le scuse, […]

– Mi scuso con tutti i fuggitivi, gli esiliati, gli esclusi e i rinchiusi che si trovano da anni in celle buie in attesa d’espulsione in centri d’accoglienza in regioni di confine e aspettano solo di morire. Questa esistenza degradante che accettiamo giorno dopo giorno! […]


Colpe individuali e colpe generali, peccati famigliari e necessità universali, tutto viene messo nel calderone di questa lunga ammissione. Ed è proprio a causa di questa confusione tra individuo e società — o meglio, di questo ricondurre sempre il problema generale a una mancanza del singolo — che il singolo non può che farsi paranoico e struggersi per la propria impotenza. In questa sincera, ma insieme inutile, ammissione di colpe, Köck riesce a rappresentare al meglio il mondo in cui viviamo. Una cattolicissima preghiera di indulgenza plenaria, un chiedere scusa da parte del mondo bianco e occidentale alla storia. Le ingiustizie del mondo hanno dei colpevoli, noi ne siamo gli eredi, quello è il nostro peccato originale e non ci resta che chiedere perdono. «Siamo vittime e carnefici, siamo controllori e controllati, siamo concorrenti e controcorrenti. Ogni nostro comportamento contribuisce a mantenere in vigore il sistema, non è che si può uscire un attimo, mandare tutto a quel paese e tornare dentro. Si può solo operare un taglio netto, una cesura e guardare cosa rimane alla fine dei conti e dedicarsi a ciò che sarebbe dovuto essere». Non c’è via di scampo, siamo stati schiacciati da «questa felicità insopportabile che aleggia sopra tutto quanto». Se non c’è un individuo che si oppone alla comunità, se non c’è un coro che bilancia e giudica l’individuo, di chi è la colpa? Tutti siamo colpevoli di tutto, che è come dire che nessuno è colpevole di niente. All’ultima battuta il coro non può che scusarsi per l’epilogo stesso: «Mi scuso per questa conclusione».

Jenseits von Fukuyama nella versione firmata da Luca Pauer e  Thorsten Koehler

Resta da fare una riflessione su una certa drammaturgia che si definisce “politica” e che spesso sembra solo una “drammaturgia anticapitalista”, dove “anticapitalista” suona come un comodo passe-partout buono per ogni indignazione. Una tendenza teatrale che ambisce a — e si giustifica grazie a — Brecht, ma che allo stesso tempo sembra sempre troppo trasparente, per riprendere le parole usate da Attilio Scarpellini nel suo recente Un elogio del gioco e delle forme. Parlando del filosofo sud coreano Byung-Chul Han, Scarpellini scrive:

«Dell’arte che chiamiamo contemporanea, che sempre più rinuncia all’impatto estetico dei significanti, al gioco delle forme, per farsi tramite di una comunicazione verbale diretta, di un contenutismo esacerbato, di quella che tempo addietro un altro pensatore, Jean-Luc Nancy, definì la “brutale trasparenza del significato”: un’arte carica di intelligenza, spesso impegnata politicamente, fin quasi a confondersi con l’attivismo politico, ma altrettanto spesso paurosamente povera di fascinazione o di quella che Han, senza alcun timore di essere dilaniato dalle Erinni del pensiero post-estetico, definisce magia. Quest’arte senza mistero, totalmente trasparente, parla alla mente senza più passare attraverso i sensi. Ci tratta da adulti, si dirà. Sì ma da adulti di un universo adulterato, dove tutto è scambio e informazione, e anche lo stupore è soltanto lo sfolgorio di una cometa che, appena apparsa, è già passata di moda».

Un po’ come accade con le parole con cui abbiamo iniziato, quelle con cui Köch condensa le tensioni degli ultimi decenni, e tutte le altre con cui farcisce i discorsi dei personaggi e del coro. Troppe cose dette così come sono. Troppe cose che sono solo facili schematizzazioni del mondo. Troppe cose spiegate. Sì, Köck restituisce molto bene la confusione in cui viviamo, è sincero nel suo deporre le armi ed è preciso nel dire la mia stessa frustrazione, ma fa intravedere sempre un giustizialismo teatrale, una solida consapevolezza di dove sia, in fondo, il confine tra giusto e sbagliato. Köck predispone uno spettacolo autoassolutorio che, nella totale schiettezza, perde di vista la profondità perturbante del rito teatrale.

Non è solo la magia di cui parlano Scarpellini e Byung-Chul Han a venir meno. Manca anche un pensiero abissale che si sottragga alle divisioni manichee tra giusto e sbagliato, bene e male. Forse, in fondo, lo stupore del magico e lo stupore cosmologico della vastità, sono la stessa vertigine. Ed è ciò che ci manca.

Jacopo Giacomoni

Foto di copertina: ©Marie-Luise Eberhar


GLOSSARIO AUSTRIACO
Al di là [Jenseits]
avv. Di là da un luogo, dall’altra parte – che vorrebbe dire che siamo oltre il limite tracciato da Fukuyama; ma “Jenseits” è anche l’ “al di là” di Nietzsche, oltre il bene e il male; ed è anche l’aldilà tutto attaccato, che siamo vivi in un oltretomba. 

Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto con una mail a [email protected].