Debutta sul palcoscenico del Piccolo Teatro Grassi di Milano A.CH.A.B. All Chihuahuas are Bastards, lo spettacolo scritto e diretto da Aleksandros Memetaj e interpretato da Agnese Lorenzini, Ilaria Manocchio, Ciro Masella, Valerio Riondino. Abbiamo raggiunto telefonicamente Memetaj per una breve conversazione sullo spettacolo.
Quali riferimenti esterni, o quali autori, sono confluiti nella scrittura di A.CH.A.B.? Qual è stata la suggestione di partenza per questo testo?
Ricordo molto bene la suggestione di partenza, legata allo spazio scenico e ispirata a Dogville: come nel film di Lars von Trier, ho cercato di ricreare le stanze dell’appartamento in cui si svolge la vicenda attraverso l’utilizzo del nastro bianco. Volevo sviluppare qualcosa che restasse sospeso in un mondo che non esiste realmente, come se avessi cercato di chiudere tutto nel mondo delle idee. Centrale è, di conseguenza, il lavoro degli interpreti su questo elemento, sugli spazi che non esistono nella realtà e che vivono esclusivamente grazie all’interazione tra gli attori. Sono molto contento del punto a cui è approdato lo spettacolo: ho dato il massimo, ma l’ho voluto relegare nel palesemente inesistente, per poter parlare, tuttavia, di qualcosa di estremamente concreto. A.CH.A.B. non è semplicemente la storia di un rapporto tra coinquilini: io voglio parlare di altro, voglio parlare dell’oggi e voglio parlare di noi oggi, della generazione tra i 20 e i 45 anni. All’inizio avevo pensato di creare una sorta di grido semi-rivoluzionario: W i giovani e al diavolo il mondo! Parlavo con Ciro [Masella, uno degli interpreti dello spettacolo, ndr] di quanto i giovani stiano vivendo un momento difficile, delle poche possibilità a nostra disposizione, e accusavo la sua generazione di non voltarsi indietro, di non darci una mano. Ma Ciro obiettò che avere 46 anni non è poi tanto diverso rispetto ad averne 28, che anche a quell’età è tutto nuovo: come potevo pretendere che si girasse verso di me quando lui stesso non sapeva cosa aveva davanti? Allora ho cercato di allargare la visuale, di parlare più in generale, di non limitare lo spettacolo a un semplice grido giovanile.
Volevo appunto chiederti dello sguardo che emerge dallo spettacolo, uno sguardo duro sulla società contemporanea. Quale riscatto pensi sia possibile per i giovani e per le nuove generazioni, ma anche per i quarantenni?
Con A.CH.A.B. ho cercato di dare due risposte diverse a questa domanda. Una, rappresentata da Eva, è la risposta violenta, l’estremo punto di arrivo davanti a una situazione di crisi; l’altra, impersonata da Maia, è l’apertura mentale e fisica verso l’Altro. Lorenzo, invece, è un caso a sé stante. La nostra generazione è cresciuta lontana dal mondo politico, non per disinteresse o pigrizia bensì perché la politica ha voluto tenere fuori i giovani dal proprio raggio d’azione: è stata sempre posta come qualcosa di “altro” rispetto a ciò che può essere interessante per un ragazzo. Invece è una parte essenziale della nostra vita: la politica è ovunque, ma non quella di cui purtroppo sentiamo parlare in continuazione. La politica dovrebbe lavorare per i cittadini, educare l’uomo in quanto animale sociale, ed è una cosa che non fa. La storia ha dimostrato che di fronte a una situazione del genere la via della violenza si pone spesso come soluzione: basti pensare a Giulio Cesare! E questa è la strada scelta da Eva. Però c’è anche un’altra soluzione, quella di Maia: un personaggio tendenzialmente mediocre, che incita tuttavia a smettere “di stare con gli occhi chiusi”… Questa, secondo me, è la soluzione: aprire gli occhi e capire finalmente che siamo tutti sulla stessa barca, accettare il fatto di essere e di dovere essere animali sociali! È inaccettabile pensare esclusivamente a noi stessi, occupandoci solo di cosa c’è sullo schermo del nostro cellulare. Basterebbe guardarci un po’ di più tra noi per renderci conto che i problemi di una sola persona sono gli stessi di tante altre. Magari lievemente diversi, ma possono comunque entrare in comunicazione tra loro. E inoltre ci dimentichiamo spesso di una realtà fondamentale: tante delle nostre preoccupazioni sono molto egoistiche, poiché minime rispetto ad altre.
In A.CH.A.B. ti sei ritagliato il ruolo del drammaturgo e del regista, affidando le interpretazioni a un gruppo di attori, alcuni dei quali – Manocchio e Masella – ti avevano diretto in passato. Come hai vissuto questa inversione di ruolo?
C’è un’estrema fiducia tra tutti noi, e so che le persone si affidano molto facilmente a me: vivo la leadership non come un “fate!” ma come un “facciamo, anzi faccio io e voi se potete datemi una mano”. Ho sempre interpretato l’atto di guidare l’altro come un lavorare per l’altro, non come un far lavorare l’altro. Questo per me è il prioritario punto di partenza. Piuttosto, mi è stato difficile riuscire a guidare la barca senza mostrare mai i miei dubbi, riuscire a essere sempre calmo e tranquillo anche davanti a elementi su cui avevo molte insicurezze. Per me è stato un viaggio nuovo, non mi ero mai messo alla regia. Fortunatamente ho lavorato con persone che hanno accettato la possibilità dell’errore: tutti sapevamo che nella costruzione dello spettacolo ogni passo poteva essere falso, quindi anche quando ne abbiamo compiuto qualcuno, l’abbiamo fatto sempre insieme, siamo tornati indietro e abbiamo riprovato. Ho avuto i compagni di viaggio giusti! L’altro elemento complesso da accettare è stato il fatto di non essere in scena: sia Albania casa mia che Elogio della Follia sono stati scritti ed interpretati da me ma diretti da altri; in A.CH.A.B. ho dovuto fare una scelta diversa. Alla fine è stata un’esperienza estremamente affascinante. Non credevo che avrei mai rivestito questo ruolo perché l’idea di stare fuori dal palco… mi dà fastidio! Invece tramite questo lavoro ho scoperto il piacere di portare gli altri in una direzione scelta da me, di plasmare lo spettacolo a mio piacimento, di creare qualcosa e poi starne fuori. È completamente diverso dallo stare in scena e a contatto col pubblico: è una sensazione stupenda, vedere gli attori che giocano con il ruolo come piace a me, che abbandonano le loro sicurezze per fidarsi di me, che accettano di usare le mie tecniche… E se capita che trovino una strada migliore, per me è una soddisfazione enorme!
Valentina Orrù
*questo contenuto fa parte di Trame d’Inchiostro, il laboratorio di visione e critica teatrale nell’ambito di Tramedautore – Festival Internazionale delle drammaturgie 2019