regia di Vincenzo Schino – compagnia Opera
Visto al Pim Spazio Scenico di Milano _ 13 Novembre 2010
Milano è una città strana. E l’affluenza alle sale teatrali può risultare un fenomeno imponderabile, a chi cerchi di comprenderlo o anticiparlo. Può accadere che in una sede centrale e prestigiosa come il nuovo Teatro Elfo-Puccini si fatichi a riempire la platea (così è accaduto in certe serate di Racconto d’inverno, in cartellone dal 19 Ottobre al 14 Novembre). O che, per una prova aperta di un gruppo noto quasi solo ad addetti ai lavori, si riempia un teatro quasi ai confini della città. È stato il caso di Sonno, presentato dalla compagnia Opera al Pim Off di via Selvanesco al termine di una residenza creativa durata tredici giorni; la versione definitiva della creazione debutterà a giugno al Festival delle Colline Torinesi.
Inutile provare a ricostruire cosa abbia spinto i milanesi a preferire una prova aperta alla possibilità di vedere uno spettacolo completo: il dato di fatto è che il numero degli spettatori che hanno assistito a Sonno era superiore a quello presente per Limite, produzione della stessa compagnia andata in scena il 6 e il 7 novembre. Ad attrarre, forse, è stata l’inedita formula aperta e laboratoriale, con tanto di aperitivo offerto e possibilità (caldeggiata) di fare due chiacchiere con il regista. Certamente un’occasione, per Vincenzo Schino e il resto della compagnia, per raccogliere idee, concentrarsi sulle criticità, indirizzare il percorso. Ma anche un rischio: affidare alle cure degli spettatori una creatura non ancora ultimata significa esporla, inevitabilmente, a un giudizio prematuro.
Il lavoro è stato presentato esplicitamente senza pretese di organicità; a scandire la successione delle scene selezionate era un simbolico riaccendersi delle luci di sala, come a negare di continuo l’esistenza di una macro-struttura già definita. Ma è il metodo stesso di Vincenzo Schino a rifuggire un sistema scenico ordinato su linee logico-narrative: le creazioni sono concepite piuttosto per giustapposizioni analogiche di immagini, mai portatrici di un significato univoco, ma piuttosto di ambiguità, complessità, irriducibilità. Questa volta, il tema scelto per la ricerca porta più decisamente in questa direzione: ad essere esplorato è l’universo dell’onirico, dell’inconscio, il “luogo dove si formano le immagini”.
Tre sono le direttrici principali sulle quali si muove l’indagine: il duende, il mondo di Goya (fondamentale il contributo dell’artista visivo Pierluca Cetera) e infine l’universo ctonio del Macbeth shakespeariano. I demoni di Goya e gli spiriti di Macbeth, dunque: a muoversi sul palco, nella prima scena, sono non a caso alcune figure vagamente bestiformi, che tastano lentamente il terreno, come a percorrere un’invisibile gabbia. La ricerca sul corpo è a cura di Marta Bichisao, danzatrice di formazione, che spicca sugli altri interpreti per qualità di movimento e per un’attitudine fisica mai prevedibile o didascalica. Nei successivi momenti scenici, altri personaggi appaiono davanti allo spettatore, emergendo come dal fondo di una sonnacchiosa coscienza: tra loro si staglia l’inquietante figura di un infante (ispirato al Manuel Osorio di Goya). Vestito di rosso, il fanciullo procede lentamente mostrando al pubblico il suo volto – una maschera dai tratti puerili di raggelante impassibilità – e pare quasi tenere oscuramente in mano le fila dei destini degli altri personaggi. Un momento dopo, lo si vedrà giocare a carte con un interlocutore immaginario dinnanzi a una sedia vuota (come quella di Banquo, nel Macbeth): ed è lui, naturalmente, a dettare le regole della partita.
Lo spettatore, perso in un percorso che non ha vie principali o che forse non ne ha affatto, viene lasciato solo con i (propri?) mostri, perché tenti di interpretarli, seguirli, o soltanto di guardarli. L’inquietudine cresce e le immagini si fanno sgradevoli fino ad essere ripugnanti: un uomo estrae lentamente dallo scarico del lavandino una infinita ciocca di intricati capelli, fino a venire squassato da spasmi di vomito. Ed è come nei sogni: se non riconosci chi agisce, è probabile che sia tu.
Il ritmo è il cuore della ricerca di Vincenzo Schino: a rendere visibile la rilevanza dell’aspetto temporale è un enorme pendolo che oscilla e che diviene un diaframma tra attore e spettatore, tra il tempo della fruizione e quello della rappresentazione. Punto di partenza dell’indagine è, ancora una volta, l’irreversibilità del tempo di Macbeth e, nello stesso modo, il rarefatto ritmo onirico. È senz’altro questo secondo aspetto a prevalere; a tal punto che viene naturale chiedersi se sia possibile scandire su queste linee uno spettacolo compiuto o se non sia necessario – pena l’ipnosi – introdurre scarti, contrasti, accelerazioni improvvise.“Abbiamo così presente il rischio” – risponde Schino quando gli si segnala il dubbio – “che abbiamo deciso di dichiarare la nostra difficoltà mettendola, anche visivamente, sul palco. Il pendolo ci ricorda in ogni momento il problema del tempo”.
E, come si dice in psicanalisi, dichiarare il problema è sempre il primo passo per risolverlo.
Maddalena Giovannelli