di e con Barbara Toma

visto al Pim off di Milano, 8 Marzo 2012.

The end – lo spettacolo con cui i Babilonia Teatri si sono aggiudicati il premio Ubu – chiudeva con un’immagine liberatoria e catartica le cupe riflessioni sulla morte: al momento degli applausi, l’attrice Valeria Raimondi compariva sul palco con in braccio il figlio neonato.
La stessa primordiale dialettica vita/morte, posta in una prospettiva schiettamente autobiografica, è alla base del dittico presentato da Barbara Toma per l’8 Marzo al Pim off di Milano. Data non casuale: i due lavori svelano un mondo tutto al femminile, dove la figura maschile è evocata solo come assenza. Le due creazioni risultano perfettamente complementari: per entrambe, la Toma sceglie una modalità espressiva intima, colloquiale, un dialogo senza schermi con un pubblico che è così vicino da poter godere di ogni singola piega del volto.
In Orbata la coreografa ritorna sulla morte del padre, ripercorre i giorni del lutto, scava nella piaga di un dolore ancora aperto, ultimo legame che non si può (e non si vuole) recidere. A soccorrerla in un percorso così rischioso è una salvifica autoironia, che le permette di scivolare senza soluzione di continuità da Candy Candy (modello rifiutato di un’orfana inetta e leziosa), a una funky-girl che stilizza nell’aria i movimenti dello ‘scratch’, fino a una ballerina da avanspettacolo con piume, paillettes e zeppe che si trasforma davanti al pubblico in un credibilissimo struzzo. Si soffre, si muore, but the show must go on.

La Toma guida lo spettatore, disarmato da tanta leggerezza, all’interno della propria ferita, la mostra senza veli, ascolta il disagio e l’imbarazzo di chi guarda il dolore troppo da vicino: così accade quando il verso informe dello struzzo diventa l’urlo disperato “papaaaà!!!”, quando la performer si concede un tempo lunghissimo per un pianto in proscenio, quando, bambola alla mano, Barbara si trasforma in una bambina, orfana in carne e ossa lasciata sola in un mondo troppo grande. Se la musica costituisce un punto di riferimento costante della narrazione – e viene identificata, non a caso, come un’eredità paterna – ben più conflittuale è il rapporto con la danza: la drammaturgia priva di momenti coreografati diviene espressione metateatrale dell’impossibilità di danzare, riconoscimento della funzione salvifica del movimento, ma anche dell’incapacità di accedervi.

Ecco perché ci si sente sollevati, quando si rientra nello spazio scenico per vedere Io non dormo: più della ninna nanna che risuona nell’aria, del codice visibilmente mutato, del rassicurante pancione della performer, simbolo della vita che continua, è il movimento a colpire, una danza che viene restituita allo spettatore come un conforto prima negato. Anche in questo caso, lo studio dedicato alla maternità (eloquente il sottotitolo: “diventare mamma non è un dovere, è un diritto!”) prende le mosse dall’esperienza biografica: alla neo-mamma Barbara Toma, questa volta vestita in nero, si affiancano quattro immacolate performer in dolce attesa e una colorata e più esperta donna-madre. La vita pare avere la meglio, ed è tempo di catarsi. Non senza scarti, naturalmente: la maternità viene raccontata anche come privazione, come trasformazione degradante del corpo, come trasfigurazione della femminilità (ancora una volta, con ironia: le performers si trasformano in tante eteree Madonne, per poi scoppiare a ridere). Il lavoro – certamente non ancora così maturo da poter essere presentato come creazione autonoma – acquista un senso profondo proprio nella dialettica con il precedente: a legare entrambi, oltre al ciclo stesso della vita, è una disarmante autenticità, capace di attivare con lo spettatore una connessione profonda e spiazzante.

Maddalena Giovannelli
Chiara Trifiletti