Se qualcosa abbiamo imparato – o dovremmo imparare – da quel che stiamo vivendo, è rimettere in ordine le nostre priorità, decidere cosa conta veramente, e di conseguenza come, dove e con chi impiegare il nostro tempo e la ritrovata libertà. Questo vale anche per il teatro, che ci appare ora una conquista, una scelta per nulla scontata. Dopo mesi di chiusura forzata teatranti e spettatori hanno ripreso a incontrarsi dal vivo, comprensibilmente, con rinnovato entusiasmo. Ma anche con una nuova consapevolezza: la pandemia ha lasciato cicatrici e segni evidenti.

Con questi pensieri torniamo in Sicilia per rinnovare il rito annuale degli spettacoli classici e riprendere il filo di un dialogo interrotto: e qui da sempre ogni rinascita o ripartenza non può che essere nel segno dell’Orestea, unica trilogia di Eschilo sopravvissuta integra dell’intera produzione antica (ricordiamo che il format della trilogia è un’invenzione greca: venticinque secoli fa ad Atene le tragedie si concepivano e rappresentavano a gruppi di tre, più un quarto dramma di diverso genere). Eschilo la scrive e la rappresenta prima di partire per la Sicilia dove terminerà la sua carriera e la vita, e dove ancora oggi i tre drammi Agamennone, Coefore e Eumenidi sono spesso messi in scena insieme, o anche singolarmente, da registi diversi o dallo stesso.
Stavolta la ripartenza dopo la pausa forzata è celebrata da una trilogia sui generis, ‘slegata’ per molti versi, ripartita tra due luoghi-simbolo della Sicilia. Al teatro greco di Siracusa vanno in scena Coefore e Eumenidi, a Gibellina l’Agamennone nella libera riscrittura di Emilio Isgrò intitolata Agamènnuni (Isgrò, L’Orestea di Gibellina e gli altri testi per il teatro, Le Lettere, 2011). In entrambi i casi la scelta è dettata da una ricorrenza: a Siracusa le Coefore furono messe in scena per la prima volta nel 1921 (dopo l’Agamennone del 1914, e peraltro non seguite da Eumenidi). A Gibellina Agaménnuni è scelto per commemorare i 40 anni del Festival Orestiadi, che ancora oggi porta il nome della ‘trilogia siciliana’ di Isgrò, nata per celebrare la ricostruzione di Gibellina dopo il terremoto. Ma a differenza dell’Orestea di Eschilo e della messinscena degli anni Ottanta nel Belice (necessariamente corale e con larga partecipazione di cittadini) per la prima volta l’Agamènnuni va in scena in versione ridotta e in forma di monologo: il testo di Isgrò viene opportunamente tagliato e splendidamente eseguito da Vincenzo Pirrotta (che recita e canta tutte le parti maschili e femminili con la consueta varietà di toni e registri, che ci ricorda il grande Carmelo Bene), accompagnato dalle sole percussioni di Alfio Antico (nomen omen) dal suono arcaico, ctonio, ancestrale.

Foto di Stefania Mazzara

Come già l’Orestea di Isgrò, anche questo Agamènnuni ci dimostra che da una tradizione regionale può nascere un teatro plurilingue, innovativo, d’avanguardia (come già auspicavano i Futuristi nel 1921, nel loro Manifesto per le rappresentazioni classiche a Siracusa). Pirrotta ai Futuristi sarebbe piaciuto, immagino, perché unisce memoria e sperimentazione, cultura greca e siciliana, grazie alla sua formazione (già allievo di Mimmo Cuticchio e dell’Accademia di teatro dell’INDA) e alla lunga esperienza di regista e drammaturgo (vanta anche molti spettacoli a Gibellina tra cui una versione di Eumenidi commissionata proprio dalle Orestiadi nel 2004). Questo Agamènnuni sancisce ufficialmente la sua investitura come erede di Isgrò o forse potremmo dire sua ‘Nemesi’: quarant’anni fa Isgrò era già celebre per le sue ‘cancellature’ quando osò “cancellare Eschilo” (ma per riscriverlo, come un palinsesto, facendone emergere le parole-chiave). Per ironia della sorte il cancellatore viene a sua volta ‘cancellato’ da Pirrotta che porta al massimo grado il processo avviato da Isgrò. Eliminati attori, cantanti, oggetti scenici, ridotta la scenografia a un semplice fondale – tenda o skené, come quella delle origini – su cui si proiettano opere di Isgrò che fanno da ideale complemento visivo alla voce (come se lo stesso Eschilo apparisse sullo sfondo,  con i suoi versi in parte cancellati). Il testo è per così dire scarnificato, ridotto all’osso – “uno stupendo osso carico di carne magra” – lo definiva Pasolini nella sua Nota del traduttore premessa alla sua Orestiade, messa in scena proprio al teatro greco di Siracusa nel 1960 per la regia di Gassman e Lucignani.

 

Foto di Stefania Mazzara

In quello stesso teatro di Siracusa, il 7 luglio, abbiamo visto Coefore ed Eumenidi con la regia di Davide Livermore, diametralmente opposta a quella di Pirrotta: non un monologo essenziale, su un palco nudo, nel cortile di un Baglio, ma una maestosa scena antica che incornicia un apparato imponente per sfarzo e dimensioni, un gran numero di attori in scena, degno di un’opera lirica, e una scenografia colossale e d’effetto. E se la riscrittura di Isgrò sorge dalle macerie stesse di un terremoto (quelle vere, nel 1983, tuttora evocate simbolicamente dal testo “è Troia o Gibellina tutta questa rovina?”) a Siracusa ci appaiono in scena macerie ‘finte’, oggetti posticci, simulacri di una catastrofe: il palazzo degli Atridi dove è ambientata l’Orestea qui si presenta come un cumulo di rovine (Genova coproduce lo spettacolo, quindi non stupisce l’evocazione del ponte Morandi).

Foto di Michele Pantano

Al centro della scena campeggia una enorme sfera su cui sono proiettate di continuo, per quasi tre ore, diverse immagini in movimento, astratte o concrete, mappe della terra, il volto di Agamennone defunto che appare ai suoi figli Oreste e Elettra per incitarli alla vendetta. Anche sul piano temporale ci sono punti di contatto con l’Orestea di Isgrò, aperta simbolicamente dal carrettiere /scolta /Oreste che torna indietro nel tempo e nel secondo dramma (I Cuéfuri) sbarca con gli Americani in Sicilia, per sancire l’incontro di Vecchio e Nuovo mondo: Livermore propone frequenti richiami al passato e al periodo bellico, in particolare nelle acconciature, nelle uniformi dei soldati e in altre allusioni più o meno esplicite (in un’intervista paragona il sacrificio di Ifigenia, che è antefatto della vicenda, a Mafalda di Savoia, altra figlia di re immolata alle ragioni del potere). Così Oreste e Pilade depongono sulla tomba di Agamennone non un ricciolo, bensì un proiettile, e sono entrambi armati di pistola al pari di Elettra, delle coreute e di Egisto. Quest’ultimo la usa ripetutamente contro le donne – con violenza gratuita spara a una sciagurata amante in sottoveste rossa, poi minaccia Elettra e le coreute – e come contrappasso viene freddato da Pilade, con un colpo alla testa, in scena (a differenza che in Eschilo, dove gli omicidi naturalmente avvengono fuori scena, com’è uso nel teatro attico). Anche Clitemnestra a sorpresa viene assassinata in scena da Oreste, che le versa il veleno nel vino (ricordandoci la morte di Gertrude nell’Amleto shakespeariano, a sua volta erede indiretto dell’Orestea secondo Jan Kott).

Foto di Franca Centaro

Alla morte di Clitemnestra (Laura Marinoni) appaiono puntuali le tre Erinni, qui impersonate da tre androgine creature in abiti lunghi di lamé dorato: sono loro a segnare il passaggio ad Eumenidi, dove perseguitano Oreste fino all’intervento in sua difesa di Apollo (qui un dio algido in completo bianco, mai così smagliante e distante dagli umani) e di Atena (qui duplicata in due distinte attrici, una nel ruolo di statua e una in tailleur acconciata alla Evita Peròn). I due sono tanto superbi, fatui e odiosi da farci parteggiare decisamente per le Erinni, anche perché almeno il “canto senza lira” delle dee vendicatrici ci pare più efficace e originale dei canti delle Coefore e delle musiche di scena, in parte dal vivo in parte registrate, ma non certo memorabili. Certo, il confronto è impari se ripensiamo a Villa Eumenidi, terzo capitolo dell’Orestea di Isgrò, dove il coro aveva una natura composita e Clitemnestra si replicava in Cinquanta Madri (Isgrò, L’Orestea, pp. 314-352) ma anche a tanti altri allestimenti precedenti, dove il coro di Erinni e quello dei cittadini avevano un ruolo di primo piano (ad esempio un doppio coro molto efficace caratterizzava le ultime Eumenidi siracusane dirette da Calenda, che chiuderà il ciclo di Spettacoli classici 2021 con le Nuvole di Aristofane). Nell’attuale messinscena invece il primo tribunale della storia, l’Areopago, non è impersonato da attori, bensì da sagome che ricordano i bersagli del poligono. Una scelta che suona come omen nefasto e si completa con una sequenza di immagini – tutte di catastrofi e stragi – proiettate sulla sfera, nel segno del lutto collettivo, secondo una tendenza ‘pessimista’ comune nelle Orestee del Novecento (Isgrò, L’Orestea, p.34-35).

Il finale ‘ad effetto’ conferma la vocazione dell’intero spettacolo a stupire e commuovere il pubblico – specialmente i neofiti del teatro greco – con le trovate registiche, lo sfarzo dei costumi, la ricchezza della scenografia, la varietà delle proiezioni. Per contro, l’insieme della macchina scenica è talmente soverchiante da schiacciare il testo e renderlo quasi incomprensibile, a tratti, a meno di non averlo sottocchio (pratica diffusa al teatro greco, ma da evitare per quanto possibile, se la messinscena lo consente). Il confronto con l’Agaménnuni di Isgrò, nella versione del 1983 e in quella di oggi, è ancora una volta illuminante: quarant’anni fa i cittadini di Gibellina, come nell’antica Atene, ridavano vita alla tragedia eschilea sulle macerie. Ancora oggi quel testo conserva intatta la sua forza, e risuona commovente, perfino assordante, pur se affidato a una sola voce e alle percussioni. Questo è l’essenziale, tutto il resto viene di conseguenza. Per usare una metafora gastronomica, non c’è gara tra una ricetta tradizionale siciliana, rivisitata da grandi chef, e un buffet con troppi cibi, male assortiti e dal sapore non ben definito, che non sazia e non soddisfa il palato.

Torniamo così alle premesse fatte in apertura, invitando chi sceglie di andare a teatro – tanto più se viaggia fino a un teatro antico, magari per la prima volta – a fare una riflessione preliminare, a interrogarsi sulle sue aspettative, a chiedersi se preferisce essere stupito da artificiosi effetti scenici o invece tornare alle origini, riscoprire l’essenza della tragedia, antica e contemporanea al tempo stesso. Anche il teatro dovrebbe essere una scelta sostenibile eticamente, esteticamente ed economicamente, per aiutarci a riconoscere le nostre priorità, distinguere l’essenziale dal superfluo, riscoprire l’antica massima delfica: ‘Nulla di troppo’.

Martina Treu

 

Per approfondire:

M. Treu, Cosmopolitico. Il teatro greco sulla scena italiana contemporanea, Arcipelago, 2005.
A. Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna, Bulzoni, 2004.
E. Isgrò, L’Orestea di Gibellina e gli altri testi per il teatro, Le Lettere, 2011.

 

Coefore – Eumenidi

di Eschilo
traduzione di Walter Lapini
regia Davide Livermore
scene Davide Livermore e Lorenzo Russo Rainaldi
costumi Gianluca Falaschi
visto al Teatro Greco di Siracusa il 7 luglio 2021

Agamènnuni

di Emilio Isgrò
con Vincenzo Pirrotta
musiche Alfio Antico
visto al Festival Orestiadi di Gibellina il 9 luglio 2021