Un’ora e venti di riscaldamento. A volte anche di più. Nelle sei ore di laboratorio quotidiane al Teatro Piccolo Arsenale di Venezia, il warming up non è solo riscaldamento, una intro per sgranchirsi, svegliarsi o giocare. È la base del lavoro sul gruppo, sul corpo, sullo spazio. Thomas Ostermeier propone ogni giorno una sequenza diversa di esercizi. Si comincia sempre in cerchio, saltando e sollevando le ginocchia per sciogliere tutte le articolazioni. Poi braccia spalancate a 180 gradi e pollici in su: tutti devono aver presente chi hanno a destra e a sinistra, anche senza guardarli, per esercitare la propria visione periferica. Dallo sguardo si passa al contatto con l’altro: l’incontro diventa un saluto sorridente, uno scambio di nomi, stringendosi le mani, toccandosi i fianchi, la schiena, le spalle. Il partner si può accarezzare, massaggiare, sollevare, a coppie o in gruppo. «Take it easy, and enjoy!», ripete spesso il regista, che prende parte ad alcuni esercizi.

Lentamente, il gruppo comincia a muoversi e a respirare insieme. Senza alcuna guida, gli attori dovranno ascoltare il ritmo collettivo, rallentare, accelerare, fermarsi, tenere la distanza, riprendere il movimento come in una composizione musicale. Ostemeier spiega: «nel dramma, nella musica, nella società, quando una comunità trova un’armonia, collassa. Allo stesso modo, non si sale in palcoscenico pensando che debba succedere tutto subito. Devi costruire un rapporto, comunicare, far crescere il dramma, arrivare al collasso e ricominciare». Che si balli o si giochi a inseguirsi come “wolf and sheep”, scambiandosi rapidamente i ruoli, il regista innesta nella sfrenata leggerezza degli attori i principi della biomeccanica, il tempo, il ritmo e il contrappunto.
L’esercizio del corpo è anche esercizio della memoria di storie ed emozioni. Sul palcoscenico si raccontano storie, e Hamlet è la storia che più di tutte contiene storie di teatro e di messinscene. Ogni personaggio, almeno per una scena, si trova a interpretare due ruoli: il primo per il pubblico, il secondo davanti a un altro personaggio, fingendo o mascherandosi, mentre qualcun altro lo osserva di nascosto. Playing and pretending, si direbbe in inglese. Polonio sta recitando una parte con il Re, Ofelia con Amleto, Amleto con la madre, persino il fantasma con Amleto.
Amleto non si fida della messinscena del fantasma. Inoltre, per la sua formazione all’università di Wittenberg, per la sua natura di uomo moderno, Amleto non crede nella vendetta diretta, retaggio di un passato medievale che il fantasma del padre rappresenta e invoca, chiedendo al figlio di uccidere lo zio usurpatore. Al problema filosofico e storico si mescola la natura convenzionale del teatro, dove può accadere, e nessuno lo mette in discussione, che appaia uno spettro, Dio o il diavolo. Con quale stato d’animo lo si affronta?
«Chi di voi ha mai visto un fantasma? – chiede Ostermeier ai ragazzi – O uno spirito, un contatto con l’al di là, un morto comparso in sogno? Ma nessuna esperienza traumatica, please! Non voglio veder soffrire nessuno».
Chi ha una storia da raccontare deve in pochi minuti scegliere i propri attori e istruirli. Il primo episodio è il ricordo di Andrea Collavino, il più “anziano” del gruppo, attore ma con ambizioni da da regista: una presenza notturna, come una fiamma nel buio, visitava l’attore bambino per sentire il suo respiro, quasi a controllare che non fosse morto…
Nella costruzione di tutte le scene, da subito, interviene Daniel, dal suo sound-corner di chitarra, tastiera, mac e mixer audio: il ventiquattrenne Daniel Freitag è un folletto del suono. Quando entra la sua musica, i pezzi preparati dagli attori si dilatano in profondità: ora con Suspiria in chiave elettro-noise, ora con basi dub dalle frequenze inquietanti, che accompagnano una strana evocazione di spiriti, raccontata da Christiane Mundra, bionda attrice tedesca, nello spavento generale. Quando più tardi gli allievi lavoreranno con la telecamera e le foto, Daniel creerà effetti visivi improvvisati e “sporchi” – moltiplicazione infinita di sagome come allo specchio, bianco e nero abbacinante con movimento rallentato – ma tanto più sorprendenti quanto più si avvicinano a quella riproduzione della realtà che tutti, continuamente, subiamo e produciamo, con computer o altri gadget tecnologici. Senza troppa teoria, spiegherà poi Ostermeier che stiamo andando verso una costruzione della scena dove anche la musica e i video rappresentano un elemento indispensabile del décor, un’architettura sonora, un’atmosfera con cui confrontarsi.
Al corpo e alla memoria degli attori, invece, il regista si aggancia per costruire lo scenario emotivo del personaggio. La fiamma evanescente del primo racconto sul fantasma, interpretata dalla torinese Iris Fusetti con slanci leggeri e circospetti, torna in scena con la stessa sequenza di movimenti, ma le battute sono quelle dello spettro del Re, accolto dal figlio con paura e sospetto. Un fantasma senza il clichè della voce rauca: «la vera ispirazione – chiarisce il regista – viene dalla realtà, non dal cinema o dalla tradizione teatrale. Quella sarebbe solo una copia, non una modalità artistica per ritrarre il mondo».
Le storie degli attori sono impressionanti, come si conviene ai racconti dei fantasmi, ma anche divertenti. Alcune diventeranno i tormentoni del laboratorio, come il ricordo del terribile spettacolo “Passaggi”, visto da uno dei ragazzi a Sant’Arcangelo, sedie spostate da personaggi coperti da veli, parodiato in uno degli episodi inscenati come paradigma di un pessimo teatro, noioso, lento e incomprensibile. In altri casi sono davvero momenti di autocoscienza: Maximilian Dirr, attore tedesco di origini italiane, allievo alla Scuola dello Stabile di Genova, racconta di essere sfuggito ad una situazione familiare difficile, cercando nel teatro il suo riscatto. «It’s the best reason to make theater!» commenta Ostermeier.
La creatività dell’attore diventa fonte primaria per il regista: in un altro esercizio chiede ai ragazzi di inscenare la foto di famiglia del Re, prima e dopo il delitto, con e senza gli altri personaggi: nelle varie combinazioni proposte, le traiettorie degli sguardi e la posizione dei corpi sintetizzano una rete di relazioni e tensioni che già nella sequenza di family pictures teatrali raccontano moltissimo.

In una delle ultime, Amleto-Pasquale Di Filippo, ruggente ex allievo della Paolo Grassi di Milano, esce dalla foto e siede in platea, come un ragazzo deluso che scappa cercando conforto negli amici. Il pubblico è la sua nuova famiglia, è la componente più importante del teatro elisabettiano, è l’apertura prospettica del Rinascimento, che moltiplica la bidimensionalità del personaggio, è l’interlocutore privilegiato, il destinatario dei tanti monologhi, e del temibile to be or not to be, il mostro affrontato e combattuto per i tre giorni successivi.

Fabiana Campanella