Thomas Ostermeier avrebbe voluto arrivare all’ultimo giorno del laboratorio, venerdì 31 dicembre, per rivelare la sua convinzione che Ofelia e Amleto fossero entrambi consapevoli della presenza nascosta di Polonio e del Re Claudio, durante la scena del loro incontro (III, 1). Gli allievi del laboratorio, però, lo davano per acquisito già dal mercoledì. Il dialogo più celebre di tutto il dramma, quello in cui Amleto dice a Ofelia «To a nunnery, go, and quickly too. Farewell.» è una scatola cinese di inganni, messinscene, rivelazioni e sottintesi. È una scena d’amore, di rabbia e delusione; è una finzione su diversi livelli; è il tentativo estremo di salvare la vita l’uno all’altro.
L’abbiamo vista infinite volte, nei cinque giorni di workshop, con e senza il monologo del to be or not to be che la precede. Agganciandosi ai racconti autobiografici proposti dagli attori, sul tradimento, subìto e perpetrato, sulla vergogna, la rabbia e l’imbarazzo, il regista ha chiesto di ripetere le stesse scene, stessi movimenti comportamenti e sentimenti delle improvvisazioni, introducendo le battute del dialogo, tenendo conto sempre della presenza di Polonio e del Re.
Così il racconto di Pietro Marullo – attore napoletano trapiantato a Bruxelles – che ricorda quando suo padre, in preda a un delirio di prepotenza, lo trascinò via dal teatro in cui stava per recitare, diventa la situazione di base per costruire la vergogna di Ofelia. Nella costruzione della scena di Shakespeare, Pietro prenderà il ruolo del metteur en scène intradiegetico, e sarà ripetute volte un perfetto Polonio, ex attore ed esperto teatrale. In un altro passo del dramma – ricorda Ostermeier – il consigliere del Re racconterà ad Amleto di esser stato un Giulio Cesare, non a caso: è Polonio a istruire Ofelia in questa recita, per mostrare a re Claudio come Amleto cadrà presto nella sua follia d’amore per la figlia. Qui Polonio si gioca la carriera e forse anche la vita, è nervoso e sempre in movimento. Il Re è in pericolo, si sente minacciato da Amleto, e Polonio deve dimostrargli di essere il suo fidato ciambellano, come era stato per Re Amleto.
Amleto entra in scena furibondo, nella prova di Pasquale Di Filippo, attore di potente presenza scenica, generoso e originale in ogni suo esperimento. Urla fuori scena, travolgendo sedie e tavoli, irrompe davanti al pubblico, e con esso condivide i suoi dubbi, la sua incapacità di reagire, e di soffrire, lasciandosi assalire dall’idea del suicidio, in una situazione in cui tutti si aspettano da lui un comportamento da eroe. Questo è quello che Ostermeier chiama “Acting and performing with audience”: il personaggio si sdoppia, e dialoga con gli spettatori, come un intrattenitore che spiega ciò che succede sulla scena. Secondo il regista, è l’aspetto più moderno del teatro elisabettiano, ripreso poi da Mejerchol’d, dal teatro epico di Brecht, e dalla dimensione contemporanea dell’entertainment.
In un’altra prova, Kostis Kallivretakis, quarantenne attore greco sbilenco e di innata verve comica, metterà in scena il monologo riprendendo se stesso con una telecamera dietro le quinte, mentre sullo sfondo Polonio spiega a Ofelia come comparire al cospetto del Principe. Sul palcoscenico vuoto, l’immagine proiettata in primo piano del viso di Kostis che guarda in camera e spiega che non vuole uccidere lo zio, piuttosto morire, o dormire, è la rappresentazione più efficace di questo sdoppiamento. Il momento di intimità con il pubblico si conclude quando i personaggi, Ofelia Amleto Polonio e Claudio, entrano fisicamente in scena.
«Ecco la bella Ofelia» («The fair Ophelia!»), dirà Amleto per introdurla. Nella prova di Pasquale, è Claudia Donzelli, proveniente dalla scuola milanese del Piccolo Teatro, già sullo sfondo della scena sin dall’inizio, tremolante col suo libro in mano, mentre il padre le fa segni convulsi dalle quinte: deve riuscire a dimostrare che è stato davvero Amleto a darle i regali che lei cerca di restituirgli, anche se lui nega. Ofelia deve battersi per questo amore, ma è sconvolta dall’atteggiamento inatteso dell’elegante principe che lei ha amato, di cui potrebbe addirittura essere incinta. Ora lui la rifiuta, la tratta come una cosa sporca. «Sei onesta?» Le urla, perché le parole arrivino forti a chi ascolta di nascosto. Ancora una volta Amleto condivide con il pubblico le sue riflessioni sul potere, sulla bellezza corrotta. Tra le linee, si capisce però che vuole proteggere Ofelia, invitarla a fuggire. Chiamandola a sé, sottovoce, le dice di andare in convento.
«It’s already too good!» commenta sorridente il regista berlinese.
Nei vari monologhi eseguiti, quasi tutti gli Amleto hanno cercato di uscire dal personaggio che parla con se stesso. Pavlov Myroftsalis, ventiquattrenne di Salonicco nato negli USA, ha usato la telecamera per parlare col pubblico, col corpo nascosto sotto una coperta bianca e nera. Pietro, invece, la usa per riprendersi mentre recita la prima parte del monologo. Poi stacca, proietta sul fondale la registrazione appena eseguita senza l’audio e in moviola, e prosegue col testo fino all’ingresso di Ofelia, mentre scorrono le immagini al contrario in una suggestiva sincronia con le parole. Il suggerimento di Ostermeier era di usare la telecamera come veicolo per comunicare con gli spettatori, un tool per raccontare storie in modo tridimensionale: alcuni l’hanno usata per amplificare la propria immagine, come uno specchio, rimanendo in un territorio troppo privato che invece il regista invitava a oltrepassare. Altri, come Fortunato Leccese, 26 anni, napoletano a Roma, la usano per inquadrare il pubblico, e interrogarlo sugli stessi quesiti che si pone Amleto.
Senza telecamera, ma alla maniera di uno show televisivo, Riccardo Ripani, 28 anni, già attore nei Demoni di Peter Stein, spiega al microfono cosa è successo: è il regista che lo incita a farlo, per capire perché abbia sparso di chiodi il pavimento, perché sia stato così cattivo con Ofelia, per non uscire mai dalla dimensione della complicità col pubblico, che sa, sin dall’inizio, che c’è un pericolo in agguato. Solo tenendo sempre presente questo pericolo si può vivere la tensione della scena, ricorda Ostermeier.
In una delle ultime versioni, ancora con Pasquale nei panni di Amleto, e Valentina Fago – 37 anni, italiana a Parigi – emerge con evidenza l’altro aspetto fondamentale del teatro elisabettiano come teatro popolare: il dramma di Amleto è anche commedia, e la situazione tragica comprende la risata. Valentina insegue Amleto coi suoi regali, si alza la gonna, Polonio e Claudio si nascondono coprendosi la testa con le sedie al contrario: l’effetto comico è dirompente, proprio perché sembra non completamente nelle intenzioni degli attori.
Anche nelle interviste concesse fuori scena, gli attori confessano di aver tradito intenzioni e aspettative sul workshop, tutte superate con la sorpresa di trovarsi di fronte a un maestro che aveva tantissima voglia di scoprire in loro emozioni e storie, con le quali esplorare il testo in nuove direzioni, senza appoggiarsi su fondamenti teorici, ma piuttosto sull’esperienza privata degli attori e sull’indefessa pratica teatrale, sempre con ironia e determinazione.
Pur se molti non riescono a individuare un vero “metodo Ostermeier”, dal training, alle improvvisazioni autobiografiche, all’analisi del testo e del contesto, il regista ha saputo lavorare sul gruppo e sulla consapevolezza della responsabilità dell’attore, «che non deve lasciare il cervello in camerino per andare a ripetere una parte, come fanno molti in Germania», ribadisce ridendo.
Gli innumerevoli stimoli nell’analisi delle scene, le risposte e tutte le nuove domande, l’idea dell’attore come creatore della scena, e del regista come guida, sono il tesoro che molti dichiarano di portarsi a casa da questa esperienza. Ma soprattutto il concetto dell’ “audience” sempre in scena: «Io vorrei addirittura riaccendere le luci in sala – dice Pietro – se qualcuno ha qualcosa da dire, la dica negli occhi degli spettatori».
Christiane ci spiega che ha visto quasi tutti gli spettacoli di Ostermeier, e ogni volta sono completamente diversi: anche l’approccio al workshop è stato assolutamente originale, e in esso ha trovato molti spunti che costituiranno il suo lavoro d’artista nelle prossime settimane.
«Forse i partecipanti erano numerosi – osserva Mara Ferrieri, già allieva alla Paolo Grassi di Milano, qui assistente alla regia – e in alcuni casi non si sono potute approfondire o sviluppare tutte le proposte. Ma ho trovato molto interessante il lavoro sulla narrazione che il regista ha condotto».
Tutti si danno appuntamento a ottobre del 2011, per la Biennale Teatro diretta da Àlex Rigola, che accoglierà sette tra i più importanti registi d’Europa, il loro lavoro sui sette peccati capitali, ed eventi e workshop sparsi in tutta Venezia.
Fabiana Campanella