visto al Teatro Menotti di Milano (Tieffe Teatro)_ 10-29 Gennaio 2012

La tragedia della gelosia, nella versione di Massimo Navone, si svolge tra tavoli di taverna e bottiglie di vino. I personaggi si aggirano con scarponi e divise militari, brindano e diventano presto alticci, mentre il corpulento Otello pare quasi diventare il Woyzeck di Büchner.
È un luogo senza tempo la taverna, che evoca una milonga porteña – così gli abitanti di Buonos Aires amano chiamare le sale destinate al tango – ma che non precisa la sua collocazione geografica.

Il primo atto procede con fluidità, tutto orchestrato dal bravo Jago (certamente il migliore interprete) e diretto con mestiere da Navone: il tarlo dell’invidia rode le menti e i cuori, vengono tesi i fili dell’inganno nel quale Cassio inevitabilmente cadrà, i due innamorati cominciano impercettibilmente ad allontanarsi. La vicenda shakespeariana sembra farsi d’un tratto vicina e leggera nell’atmosfera retrò eppure non troppo lontana della taverna e nei buoni ritmi della regia: il pubblico – tra cui non pochi giovanissimi studenti –  partecipa, commenta, ride. Qualcosa però si rompe nel secondo atto: i tempi si sfilacciano, la tensione non tiene, si avverte di colpo tutta la corposità del testo. La sensazione è che tutto il peso dello spettacolo resti sulle spalle di un interprete forse non abbastanza maturo per un ruolo così complesso: senza nessun crescendo, Otello passa dalla calma ad urla belluine, non mostra l’angoscia che lo divora, si trasforma in una belva nella quale difficilmente si può riconoscere un tormento che è invece drammaticamente umano. E quando si resta freddi, presto ci si annoia: così risulta faticoso anche il bel canto di Desdemona tradita e della triste Emilia e non coinvolge nemmeno l’omicidio danzato dell’amata che avviene in un ultimo e straziante tango.

Già, il tango. Il ballo che per eccellenza rappresenta passione e nostalgia ben si adatta alle vicende dell’Otello, persino a quelle più sanguinose: danza di europei immigrati e di gauchos decaduti, il tango porta il conflitto nel suo dna. Navone ne fa un filo rosso che percorre tutta la vicenda: coppie di (bravi) danzatori, come avventori della locanda, escono per il tempo di un tango danzando per il palco. Dapprima si resta affascinati perché il ballo sembra dare una sottolineatura ulteriormente malinconica alla vicenda e pare concedere allo spettatore il tempo di un respiro, quasi un coro che commenti con il proprio corpo l’accaduto. Poi, quando lo schema si ripete uguale ancora e ancora, si avverte una certa nota stucchevole: ci si rende conto che, nonostante gli sguardi attenti dei ballerini a ciò che sta accadendo, i loro ingressi sono giustapposti all’azione scenica senza nessun profondo legame drammaturgico. E si sospetta che l’affascinante tango, così tanto di moda nella Milano dalle molte milonghe, sia uno studiato stratagemma per attrarre e invogliare nuovo pubblico.

Maddalena Giovannelli