Le grandi figure dell’immaginario mitologico, Antigone, ad esempio, oppure Medea o Edipo, subiscono nel tempo un processo che Gianni Celati chiamò nel 1977 della ‘disambientazione’: queste figure cioè si spostano, con un effetto di straniamento, dalla loro origine all’attualità, e ogni volta riescono a esprimere le questioni del presente e a raccontare scenari contemporanei, specie di violenza, guerra, paura, con un’efficacia simbolica dirompente e mai sopita.
La vicenda di Palmina Martinelli, la quattordicenne bruciata viva l’11 novembre del 1981 a Fasano, in provincia di Brindisi, è stata sottoposta dal lavoro della Compagnia Teatro Prisma di Bari a un opportuno meccanismo di ‘disambientazione’. Purtroppo Palmina non è una figura mitica e nemmeno letteraria: era una ragazzina che viveva in un popoloso paese pugliese in problematici anni in cui gli adolescenti si confrontavano con la droga, la criminalità organizzata, la prostituzione e soprattutto i pregiudizi di una cultura contadina che veniva corrotta e umiliata dalle esigenze illusorie della società di mercato e da fuorvianti modelli di culture più ricche e industrializzate. Chi scrive ha vissuto in un analogo paese pugliese da adolescente quei terribili anni ’80, e ha dovuto opporre resistenza, attraverso l’esercizio dei sogni, della fantasia e dello studio, alle spinte consumistiche e ai fantasmi anche ideologici del tempo. La vicenda di Palmina toccò tutte noi adolescenti pugliesi, suscitò la rabbia e il disgusto verso l’atavica violenza maschile che allignava anche in ambienti ben diversi da quello eticamente degradato in cui la sventurata ragazza, schiava nella sua famiglia (e che si voleva indurre a diventare anche schiava sessuale) si trovò a vivere i suoi pochi anni. Tutt’ora, non posso attraversare la striscia d’asfalto che taglia la Valle d’Itria, su cui domina il belvedere bianco di Locorotondo, uno dei paesi pugliesi più turistici, senza un brivido. Ai piedi del paese c’era, e c’è tuttora, la chiesetta sconsacrata che serviva ai rituali satanici della prostituzione e della violenza. Si sapeva, si taceva, si aveva paura, chi aveva fede pregava. Ma Giovanni Gentile, autore e regista del testo dello spettacolo, e Barbara Grilli, interprete senza retorica e facile commozione, nello spettacolo vanno oltre il doveroso tentativo di ricordare all’opinione pubblica una vicenda che ha avuto un esito giudiziario raccapricciante: gli imputati, infatti, i cui nomi furono pronunciati distintamente dalla ragazza in agonia, sono stati assolti con formula piena, la testimonianza di Palmina giudicata falsa, l’omicidio passato per un suicidio. Impossibile, si è capito dopo la sentenza: perché la ragazza avrebbe dovuto darsi fuoco e contemporaneamente coprirsi gli occhi per difendersi. Il lavoro di Gentile e Grilli sarebbe potuto restare dunque teatro documentario, grazie anche alla collaborazione con Nicola Magrone, allora pubblico ministero, che registrò la testimonianza di Palmina e si batté sino all’ultimo per la condanna. Lo spettacolo invece va oltre perché, come dicevo, ‘disambienta’,  la vicenda di Palmina: e la rende emblematica di una condizione nient’affatto passata di violenza, sopruso, disumanità, irrispetto. Palmina diventa così, proprio come Antigone, figura della disubbidienza femminile, del ‘no’ ostinato alla prevaricazione anche a costo di una morte orribile, della ribellione a un sistema patriarcale dalle leggi ferree, del rifiuto all’ingiusta privazione dei diritti umani. Palmina diventa cioè un simbolo: evocato finalmente nella scena finale del monologo, quando la Grilli si vela il capo e come un’arcaica madre in lutto, alza il suo canto accompagnata dal ritmo semplice di uno strumento a percussione. Canto nostalgico per una mediterranea terra amara e avara, ieri come oggi, con il destino delle donne.
Dal “teatro documentario”, recitato in maniera asciutta, talora cronachistica, con l’uso di espedienti narrativi, come la ripetizione, tipici della performance di denuncia o di inchiesta (pensiamo a Saviano e a Lucarelli), si passa dunque lievemente a un teatro sempre meno connotato dallo stretto richiamo ai fatti. L’attrice, che in scena si presenta candidamente com’è, in jeans e camicia scura, troppo giovane per aver visto quei fatti e quel tempo, indossa finalmente una maschera. Così la vicenda di Palmina (anche per chi il nome della ragazza non l’aveva mai sentito, per lontananza geografica o anagrafica) rivive oggi nella fredda e scura periferia milanese d’autunno, in uno spazio (The Art Land) che è luogo d’incontro sociale, oltre che di visione, grazie al coraggio e all’entusiasmo di chi lo gestisce (Lyra teatro). Non si può che auspicare che questa nuova Antigone porti la sua voce dolorosa ma ostinata in altre perifierie del mondo e lì dove, purtroppo, altre donne continuano a subire analoghe violenze.

Sotera Fornaro

Palmina, amara terra mia
di Compagnia Teatro Prisma
regia di Giovanni Gentile
visto allo spazio The Art Land (Fabbrica del Vapore) di Milano_11 novembre 2018.