testo e regia di Marco Martinelli
ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari
visto al Teatro Rasi di Ravenna_ 16 Novembre-2 Dicembre 2012

È il 14 febbraio 2004, il giorno di San Valentino, quando il corpo di Marco Pantani viene trovato senza vita nella stanza D5 del residence “Le Rose” di Rimini. La diagnosi non lascia spazio ai dubbi: il ‘Pantadattilo’ è morto per un’overdose di cocaina. Il processo di (auto)distruzione, iniziato nel 1999 a Madonna di Campiglio, con la squalifica e la sospensione dal Giro d’Italia, è completato.

Sono stati versati fiumi d’inchiostro sul caso. Qualcuno, si è detto, era lì, nella stanza, in quell’ultima notte. Pantani è stato abbandonato, hanno scritto altri. Se l’è cercata, è stato il pensiero corrente. Quella morte è diventata un simbolo e un insegnamento insieme. Perché il ciclismo, in Italia, è sogno, vita, passione. I suoi eroi fanno parte dell’immaginario popolare. Come Coppi, Bartali. E Pantani, appunto.

Non si ferma qui, Marco Martinelli, nello spettacolo. Ci sono sì accenni, spunti, idee, suggestioni. Ma non scade nello scabroso. “Su quello di cui non si può parlare si deve tacere”, diceva Wittgenstein. La morte è un’esperienza intima, privata. Vale come occasione di ricerca, non come oggetto di cronaca. È il perché, perché quella notte, perché si è arrivati a tanto, il punto dolente che, più concretamente, interessa il regista.
Ci sono nomi e cognomi, in questa orazione civile. C’è un testimone, l’Inquieto, e ci sono i colpevoli, il presidente del Coni Gianni Petrucci e quello della Federciclo Giancarlo Ceruti, il patron della Mapei Squinzi, la manager Manuela Ronchi, i media, la politica. Ci sono i fatti. E c’è una vittima designata: Marco Pantani. Si respira aria di tragedia: Pantani deve morire perché il sistema possa ritrovare il suo equilibrio.

È bravo, Martinelli, a rendere l’ineluttabile. Bravo ad attualizzare un sentire, sempre presente alla coscienza occidentale. E bravo a lasciarci entrare nel personaggio, un eroe che sfida il destino, i mille incidenti e gli interessi del sistema, e che per la sua hybris viene punito dalla legge, solo all’apparenza umana. Perché è questo il senso più riposto della pièce, per il resto così coraggiosa, appassionata.
Si affastellano dati, mentre in video scorrono le immagini, alcuni private, delle imprese e della vita di Marco Pantani. Un coro commenta i momenti salienti, come in una tragedia che si rispetti. I protagonisti, la madre Tonina (l’eccellente Ermanna Montanari), il padre Paolo (il sempre bravo Luigi Dadina), la sorella Manola (una vitale e poliedrica Michela Marangoni) e gli amici s’interrogano, in scena, cercando la verità.

Come nei migliori esempi di teatro civile – Corpo di stato di Marco Baliani, è l’esempio più calzante – il dato personale sfuma nella cronaca. La veglia funebre fa tutt’uno col processo alla politica, lo star system, lo sciacallaggio dei media. “Me l’avete ammazzato voi, con le vostre chiacchiere”. C’è un corpo che, come in Antigone, chiede giustizia. Non ci sono risposte, solo domande. Lo spettatore è travolto, coinvolto.
Ce ne fossero, di questi esperimenti. Martinelli prende un genere e lo reinventa da vicino. È teatro, sì, ma anche televisione, inchiesta, reportage. Con delle concessioni, un po’ dubbie, al teatro-ragazzi, come la scena della siringa parlante. Ma attuale, deciso, necessario. Intercetta la nostra storia e ribadisce il senso del nostro appartenere alla polis. E per questo merita di essere amato, apprezzato, conosciuto.

Roberto Rizzente