Le fotografie di Renato Esposito ai cinque danzatori di Paradiso – ultima produzione della Compagnia Virgilio Sieni, presentata in prima nazionale a Napoli per il Campania Teatro Festival e ora in tournée per l’Italia – sono estremamente seducenti. Negli scatti, i corpi risaltano sul fondo nero, nitidi nel caos smeraldo delle piante e scolpiti da un intenso chiaroscuro. Forse, però, di queste foto non possiamo fidarci fino in fondo: in Paradiso, infatti, niente sarà scontornato o nitido, e tutto sarà intravisto con fatica, con le palpebre semichiuse per avventurarsi meglio nella foschia umida.
Sulle note di Paolo Damiani (inizialmente solo tre, che poi si complicano e arricchiscono fino a includere una voce) prende vita tra le foglie di quattro piante un lavoro di scalpello, lento e meditato, con cui il coreografo fiorentino sbozza corpi pronti a sorreggersi in nuove, ricorrenti deposizioni. Le luci – calde e smorzate, anche per effetto del fumo di scena, studiate da Virgilio Sieni e Marco Cassini – contribuiscono all’impressione di un non finito, ostacolando ogni visione sicura e ogni immagine fissa. Davanti a noi, come scrive Sieni nel foglio di sala, comincia «la costruzione di un giardino».
Solo col passare dei minuti realizziamo che nella penombra i danzatori sono cinque; quattro di loro sostengono un vaso tra le mani, mentre a turno il quinto guida i movimenti degli altri e delle loro piante, saldamente tenute tra le braccia e continuamente spostate a ricreare una scenografia sempre nuova, mutevole e instabile. A Cango, lo storico spazio della compagnia, la verticalità dell’aula allunga diagonalmente i movimenti del gruppo, che però si mantiene coeso, soprattutto durante i momenti di «passaggio»: quelli, cioè, in cui il danzatore-guida si prende carico di un vaso e lascia che sia un altro dei compagni ad approfittare della nuova libertà di movimento, appena ricevuta in dono.
Segue un intervallo di sola umanità: le luci salgono, rischiarando la vista e offrendoci più chiari (ma mai definiti) i corpi di Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo e Giulio Petrucci. Ora in maglietta e pantaloni corti – senza alcun ramo da sorreggere, da posare, da curare, senza alcuna radice a trattenerli – i danzatori si allargano nello spazio, giocano con le distanze, si riuniscono e si allontanano; più volte il gruppo sparisce sul fondo, per poi riemergere e di nuovo crearsi. Solo per brevi tratti la velocità impenna, subito però contraddetta e rallentata dalla ricerca contraria di un gesto attenuato e lieve.
Quando fa ritorno in scena, la pianta non è più appendice, ma risorsa e duplicazione del corpo. I danzatori, a coppie, si confrontano con la libertà, immobile ma vitale, dei rami nello spazio, delle radici invisibili nel terreno: è un avvicinamento continuo e forse mai compiuto fino in fondo, ma proprio per questo valido. Infine, avanza dal fondo una fiumana di piante: i vasi costruiscono una barriera compatta di verde, ed è un crescendo di intensità che forse si sarebbe anche potuto anticipare. Dalla marea di foglie riemergono anche i cinque corpi, di nuovo a echeggiarsi nei movimenti: come le piante, anche loro si assomigliano tutti, ma nessuno è identico.
E infine, la musica cresce d’intensità e i cinque danzatori si staccano dal fondo della scena, avanzano verso di noi a passi decisi e si arrestano, con le braccia alzate; il buio cala a chiudere quest’inaspettata accelerazione. Negli occhi, però, rimane un po’ più a lungo il fermo-immagine di loro cinque, finalmente vicini, finalmente nitidi, a rispettare la promessa – a risarcire l’inganno – di quelle fotografie da cui avevamo cominciato.
È tutto finito, ma «l’abisso d’accecante luce e tenebra / fumiga ancora tutto quanto. / La mischia / non è spenta, il sì e il no del mondo / s’incalzano e si affrontano / nel gorgo della vorticosa danza», facendo nostri i versi di Mario Luzi da Sotto specie umana. E si fa anche in tempo, riemergendo dal vortice, a ricordarsi di Dante: forse lo avevamo tralasciato, dimenticato, davanti al giardino creato da Sieni. Serve, in questo 2021, un Paradiso che paradossalmente riesca a negare la stucchevolezza dei centenari, fuggendo dal loro carattere tutto ottocentesco: laico e democratico, sì, ma anche e soprattutto nazionalista, come avvertiva lo studioso Carlo Dionisotti in un saggio del 1966, intitolato Varia fortuna di Dante. Virgilio Sieni sembra seguire e fare proprio questo consiglio: non gli interessano traduzioni, celebrazioni, riproposizioni. Paradiso è un «cammino» senza personaggi né individualismi, una salita a due voci – dove quella umana è solo una delle possibilità – senza meta né guida; un puro gioco al riavvicinarsi, un tentativo di moltiplicarsi e, nel contatto, confondersi.
Virginia Magnaghi
foto di copertina: Renato Esposito
PARADISO
regia, coreografia e spazio Virgilio Sieni
musica originale Paolo Damiani
interpreti Jari Boldrini, Nicola Cisternino, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Giulio Petrucci
costumi Silvia Salvaggio
luci Virgilio Sieni e Marco Cassini
allestimento Daniele Ferro
produzione Comune di Firenze, Dante 2021 Comitato Nazionale per le celebrazioni dei 700 anni, Campania Teatro Festival
collaborazione alla produzione Fondazione Teatro Amilcare Ponchielli – Cremona
foto Renato Esposito