A pochi giorni dal primo turno delle elezioni presidenziali francesi Parigi è tornata a essere bersaglio del terrorismo. Ma nel 2016 sono stati molti, secondo le cronache, gli attacchi sventati. In questo clima del terrore, che contribuisce ad influenzare gli esiti di un importante appuntamento democratico, al teatro della Cartoucherie è in scena Une chambre en Inde (dallo scorso dicembre fino a inizio luglio). E Ariane Mnouchkine si concede qualche istante, prima dell’inizio dello spettacolo, per invitare il pubblico a non rinunciare al voto.
In questo contesto la
domanda al centro del suo ultimo lavoro, che non lascia sottintesi gli interrogativi sul senso del proprio operare artistico, appare ben più che una provocazione di maniera: “Se chiudessero tutti i teatri del mondo, chi ne sentirebbe la mancanza?”, chiede esplicitamente al pubblico la protagonista della pièce. Lo spettacolo nasce da una trasferta della compagnia del Théâtre du Soleil in India, voluta dalla stessa Mnouchkine per studiare le tecniche del teatro tradizionale Tamil. È il 13 novembre 2015: gli approfondimenti e le riflessioni sulle pratiche artistiche locali sono chiamate a intrecciarsi con il presente. Gli attentati di Parigi, le guerre, ma anche l’elezione di Donald Trump entrano così in relazione con la domanda centrale: in che modo può avere ancora senso fare teatro oggi?

Un luogo per guardare, un luogo per stare

Molte risposte sembrano in realtà arrivare prima ancora di entrare in sala. Nella storica sede della Cartoucherie, infatti, la compagnia sembra allestire un’esperienza spettatoriale a tutto tondo, che va al di là della pura presentazione scenica. In tempi in cui tanto si discute di arte come forma di inclusione, di rigenerazione urbana, di partecipazione, questo tipo di realtà (ed è una sede inaugurata nel 1970) ha ancora molto da insegnare.
L’ex fabbrica di munizioni alla periferia orientale di Parigi, nel bosco di Vincennes, si raggiunge con un servizio gratuito di navetta che parte dal capolinea della metropolitana. Tutto, fin dall’ingresso, sembra ingaggiare lo spettatore in modo semplice ma efficace. A cominciare dal rito dell’assegnazione dei posti, che ognuno può scegliere sui pannelli appesi fuori dal teatro che riportano la pianta della platea. Non solo: ogni sera, come da tradizione, Ariane Mnouchkine all’ingresso stacca i biglietti e dà il benvenuto al suo pubblico. Intorno si vedono le stesse facce che si ritroveranno dopo poco in scena. Il teatro si articola in due capannoni: quello con la sala teatrale e quello con la zona foyer, bookshop e ristorante. Entrambi vengono riallestiti ad ogni spettacolo, in un disegno scenografico complessivo che non coinvolge solo il palcoscenico. Per Une chambre en Inde si è accolti in quella che sembra essere una festa di strada d’oriente: un bancone dove viene servito il thali (il tradizionale pasto indiano), un carretto che mesce bevande esotiche a base di zenzero e hibiscus, tavoli sparsi ai quali gustare la convivialità sotto le luci colorate di luminarie che raffigurano i simboli della tradizione Indù. La sala teatrale è uno spazio aperto. Sotto ai gradoni della platea si trovano i camerini: attraverso un telo si può sbirciare la preparazione degli attori, che si aggirano in sala prima dell’inizio dello spettacolo. Alla Cartoucherie, insomma, sembra impossibile andare a teatro solo per vedere lo spettacolo: si va per stare, per condividere, per partecipare. Il luogo sembra incarnare allora una dichiarazione poetica, politica e artistica: il teatro è una casa aperta e un servizio pubblico allo stesso tempo. Non stupiscono allora, entrati in sala, l’attenzione e la partecipazione per oltre quattro ore di spettacolo di un pubblico ampio e anche molto giovane.
La camera che dà il titolo a questa creazione, che il Théâtre du Soleil firma come collettiva per oltre trenta attori in scena, è quella di Cornelia, assistente-regista in crisi creativa che nell’arco di una notte cerca disperatamente un’idea da presentare alla direttrice della compagnia. E quando arriva un fax del ministero francese che annuncia di avere tagliato i fondi destinati al loro lavoro, la domanda – eredità dei tempi di Paolo Grassi e Jean Vilar – sopraggiunge esplicita: “Avete sempre sostenuto che il teatro è un servizio pubblico: ma quale funzione pubblica sta svolgendo il vostro operare artistico in questi anni di crisi?”

Una piccola camera da cui guardare il mondo

Una camera d’albergo, rappresentata in tutti i suoi dettagli: il bagno, le finestre, i muri scrostati, il ventilatore, il letto con le lenzuola disfatte e l’aria spessa della notte dei luoghi caldi ed estranei. La scenografia di Une chambre en Inde, nei primi minuti dello spettacolo, inganna lo spettatore con un’illusoria impressione di realismo. Il telefono suona, e la protagonista strappata dal sonno risponde: Parigi calling, il Bataclan è in fiamme.
Basta qualche istante perché il quadretto mimetico si deformi sotto gli occhi dello spettatore: la stanza sembra sgranarsi d’improvviso, come in un sogno, e la protagonista pare trasformarsi nel personaggio di una graphic novel (anche la locandina dello spettacolo, del resto, richiama esplicitamente il genere). Cornelia dovrà decidere se cambiare radicalmente il suo progetto di regia alla luce dei tragici avvenimenti, e la sua lunga nottata diventerà una no man’s land dove tutto ha diritto di cittadinanza: dallo spettro di William Shakespeare a una bizzarra apparizione di Anton Checov, da ambigue figure scimmiesche che danno forma ai fantasmi dell’immaginario fino a dispettosi fax umanizzati che sottraggono il proprio messaggio non appena ci si avvicina.
Le porte e le finestre si spalancano di continuo scandendo una moltitudine di episodi che hanno la densità rarefatta del sogno, e il medesimo nitore di dettagli: a Cornelia – e allo spettatore – il difficile compito di orientarsi tra proiezioni della mente e manifestazioni della realtà. I registri espressivi oscillano con disinvoltura tra tragico (l’eco lontana dei morti parigini), comico (la compagnia in crisi di panico, tra gin e fiori di Bach) e grottesco (i molesti disturbi intestinali di Cornelia, che la costringono a interrompere le conversazioni per correre al bagno), strappando di continuo il pubblico dall’atteso e dal noto. Ed è sorprendente osservare come, dopo più di un cinquantennio di attività teatrale ininterrotta, il Théâtre du Soleil sia tuttora in grado di innovare e contaminare codici e forme, fino a creare un linguaggio che non possiamo che definire profondamente contemporaneo e che ancora oggi ha pochi eguali: una partitura libera che ruba termini e immagini dalla vita di tutti giorni e li immerge nella tradizione (da un lato l’intera storia del teatro occidentale, dall’altro l’ampio patrimonio performativo e culturale indiano). Mnouchkine ci regala insomma una lezione magistrale sulla natura stessa del teatro, ricordandoci quanto vaste possano mostrarsi le prospettive, e come sia possibile far riverberare il mondo intero all’interno di una piccola stanza di albergo. Non si può che partire da lì – sembra suggerire la regista – da quelle quattro mura, da chi siamo e da dove siamo arrivati, per rispondere alle brusche e a volte dolorose chiamate della cronaca.
Non c’è risposta, ovviamente, alla questione cruciale contenuta nella telefonata (e nello spettacolo): quanto e fino a che punto un progetto artistico deve farsi modificare da ciò  che accade fuori? E che funzione può avere il teatro nell’assimilazione del dolore e nella comprensione delle realtà?
Eppure l’onestà, il rigore, e il coraggio con cui Mnouchkine e il Théâtre du Soleil si pongono l’interrogativo sono, ancora oggi, rivoluzionari.

Maddalena Giovannelli e Francesca Serrazanetti

Une chambre en Inde
una creazione collettiva del Théâtre du Soleil
diretta da Ariane Mnouchkine
musica di Jean-Jacques Lemêtre
in armonia con Hélène Cixous
con la partecipazione eccezionale di Kalaimamani Purisai Kannappa Sambandan Thambiran