Osservando gli spettacoli di Fattoria Vittadini, ci si accorge quanto spesso siano inclini a usare la parola, un mezzo efficace e non sempre valorizzato negli spettacoli di danza, che nei lavori della compagnia diventa invece fondamentale. Nella particolare forma spettacolare del gruppo l’espressività corporea veicola idee, immagini e sensazioni nella loro silenziosa evidenza e rende l’utilizzo del parlato un momento estremamente delicato e potente. A differenza che nel teatro di prosa, qui la parola determina un cambio nel codice di comunicazione con il pubblico: la voce arriva improvvisa, quasi aliena, appartenente a un altro mondo. Si sente, in un certo senso, il bisogno di fare chiarezza sull’uso che si intende fare di questo mezzo, magari elaborando una metodologia uniforme. Se si vuole sfruttare la parola come veicolo di una narrazione altra rispetto a quella del corpo, lungi l’idea di appiattire la multiforme varietà delle produzioni del gruppo, allora si appare necessaria una sorta di sistematizzazione. Per fare un esempio: Noemi Bresciani, in un’intervista per Fragile, ha affermato che quel personaggio un po’ ribelle, un po’ “punk”, potrebbe svilupparsi e trovare nuovi elementi ma, sicuramente, non quello della voce, mentre in altri spettacoli di Fattoria Vittadini è invece stato impiegata una vera e propria  drammaturgia testuale. Distinguere tra un’espressività di impatto e una più ragionata, potrebbe essere una buona occasione per dare maggiore coerenza ad alcuni spettacoli dove la parola risultava un filo slegata. Pensiamo a Salvaje e al suo intermezzo parlato che si distingueva per l’elaborazione formale del testo e per una buona capacità nella riproposizione teatrale e che tuttavia risultava un momento di frattura piuttosto netta rispetto all’intero lavoro, in cui prevaleva una gestualità metaforica in estremo contrasto con la concretezza schietta della parte recitata. Certo la parola si può anche utilizzare come input allo sviluppo del movimento, come “protesi” del corpo… e questa è tutta un’altra storia! In questo caso lo spettatore non avverte un cambio netto di codice: il canale comunicativo resta quello del corpo, che si arricchisce però di sfumature. Sarei curiosa, in futuro, di vedere come si possa approfondire questa seconda via, già  strumento di studio in My True Self.revisited. Infatti la ripetizione di “little bird” pronunciato da MariaGiulia Serantoni durante tutta la performance è stato un elemento evidentemente connesso alla costruzione del suo personaggio, che nella sua costante tensione verso l’alto, verso il cielo, tenta con infiniti salti di prendere il volo, proprio come un “uccellino”. In questo caso la parola era parte di un quadro coerente, e quindi elemento di ricchezza significativa che arriva molto chiaramente anche al pubblico. Perché allora non sviluppare una ricerca che già nel momento iniziale di composizione dello spettacolo,  si serva della parola come trampolino, come stimolo che viene poi incorporato – anche letteralmente – nello spettacolo?

Miriam Gaudio