dal romanzo “Passio Laetitiae et Felicitatis” di Giovanni Testori
un progetto di Daniela Nicosia
visto a Piccolo Teatro Grassi, dal 28 ottobre al 2 novembre 2014
Tratto dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis di Giovanni Testori, lo spettacolo diretto da Daniela Nicosia offre una lettura originale della vicenda della sua protagonista – la “disaccentuata” Felicita – grazie alla scelta, sia a livello drammaturgico che scenografico, di tradurre la sua disperata ricerca d’amore in una sorta di via crucis.
Invece che privilegiare la centralità delle due figure femminili suggerite dal titolo, l’adattamento del testo testoriano si sviluppa attorno ai tre amori che hanno scandito la vita di Felicita, accordando ad ognuno – non solo a quello della maturità quindi – lo stesso peso, in una sorta di continuità nel dramma. La relazione (quasi) incestuosa con il fratello Dori, l’innamoramento carnale per il Cristo – trasfigurazione del fratello perso prematuramente, e la tragica passione nata in convento per la giovane Letizia sono tre diverse declinazioni, tre sofferte epifanie di un sentimento che nonostante l’apparente scabrosità, assume la forma della devozione.
Il conflitto nasce proprio tra la “santità” del sentimento che Felicita prova e il mondo esterno, con le sue convenzioni. In una Brianza fatta di miseria e violenza, ogni promessa di felicità sembra così tramutarsi in sofferenza e pena. Il fratello è non solo la scoperta del desiderio sessuale ma anche quella del dolore e della disperazione, proprio a causa della sua perdita prematura. Il corpo di Cristo diventa il fulcro di una tormentata “duità”, che non l’abbandonerà nemmeno dopo aver preso i voti. Da una parte l’amore divino e dall’altra l’amore umano. Letizia infine è l’approdo a una passione nuova e irruente che la porterà alla morte.
Nonostante la vicenda possa apparire blasfema e dissacrante, proprio nel suo accostamento alla martirologia cristiana, in realtà racchiude in sé tutto lo strazio e l’umiltà per gli ultimi, tanto cari all’autore. Non è un caso che lo spettacolo sia apra – peccando forse di eccessivo didascalismo – con un episodio della biografia testoriana che narra l’incontro con uno di “questi uomini e donne trascinati ogni giorno dalla vita”. Ma accanto al registro della sofferenza, l’altra grande protagonista della pièce è la parola. La lingua utilizzata da Testori è marcata – come già ne La Trilogia degli Scarrozzanti – da uno spiccato plurilinguismo: un denso impasto di dialetto lombardo, latino, lingua del seicento e francesismi. Espressivo e carnale come i suoi personaggi. Maddalena Crippa restituisce a questo idioletto un’interpretazione viscerale e molto intima, mentre Giovanni Crippa nei tre ruoli di voce narrante, autore e fratello – in scena come nella vita – offre una prova più rigorosa. Un controcanto più distaccato. La scelta di aprire il monologo di Felicita e di moltiplicare i piani di narrazione è convincente, anche se in certi punti risulta eccessiva e macchinosa.
Una nota di merito va senz’altro alla scenografia di Gaetano Ricci e al disegno luci di Stefano Mazzanti. La scena è asciutta ed essenziale, sia nei materiali che nei volumi. In mezzo al palcoscenico campeggia una struttura modulabile in legno – inizialmente stesa e fissata a delle funi. Una croce: la croce di Dio o la croce del suo martirio amoroso. I tagli di luce e i contrasti creati dai chiaro-scuri sia sulle superfici spoglie che sui corpi dei due attori rimandano alle pose della pittura seicentesca – i tanto amati Caravaggio e Bernini – traducendo una volta di più ombre e luci che attraversano la scrittura e i personaggi di Testori.
Valentina Sorte