testo e regia di Lina Prosa
con Maddalena Crippa e Graziano Piazza
visto all’Accademia di Francia a Roma, nell’ambito di Romaeuropa Festival_ 29 settembre 2016
Lina Prosa, direttrice con Anna Barbera del Progetto Amazzone e del correlato Studio Attrice/Non, è un’autrice siciliana sinora più conosciuta in Francia che da noi, sebbene recenti e prestigiose messe in scena anche internazionali della sua Trilogia del naufragio la stiano finalmente portando ad una certa notorietà. Nei suoi testi poetici, spesso la voce recitante principale porta il nome di un personaggio femminile del mito greco. Le eroine di Lina Prosa navigano affannosamente in una individuale quotidianità malinconica, talora tetra, colma di miseria, malattia, turbamenti psichici. Nell’immensità labirintica delle riscritture e ‘correzioni’ del mito, i testi di Lina Prosa, che speriamo di veder più spesso rappresentati, si distinguono innanzitutto per lo stile: la parola si spezza, singhiozza, segue i percorsi mentali non lineari delle voci recitanti e se ne allontana repentinamente per fermarsi sugli oggetti minimi della realtà sensibile, solo apparentemente insignificanti, e sui dettagli discreti in cui si nascondono invece simboli. La realtà, in queste piéces spesso ‘a voce sola’, consiste in un comporsi e subito scomporsi di frammenti isolati, il cui senso sta in un insieme che sembra sempre sfuggire all’individuo che soffre. Il mito si insinua in questo caleidoscopio straniante, per offrire un illusorio appiglio interpretativo: invece si tratta di una maschera anch’essa fluida, volubile, un gioco dell’immaginario senza alcuna stabilità simbolica. La parola di Lina Prosa racconta il dolore, scava nell’indicibile della pena fisica, nella fragilità del corpo, nello sforzo di alleviarne o guarirne le ferite. Si tratta di parola specificamente tragica sia perché ‘capace di uccidere’, come la definiva Hölderlin, nella raccapricciante verità di ciò che racconta, sia perché aspira ad una catarsi, dell’autore, dell’attore, del pubblico.
Questo genere di teatro di poesia esige interpreti d’eccezione che sappiano sfidare una parola tanto oscura, come sono Maddalena Crippa e Giancarlo Piazza (che vedremo ancora insieme al Piccolo di Milano interpreti di un altro testo della stessa autrice); i quali hanno affrontato con indiscussa maestria, nell’incomparabile cornice del salone di Villa Medici l’inquietante Pentesilea. Allenamento per una battaglia finale. Da una parte c’è una donna, forse ricoverata in manicomio, che si confronta con la nebbia dei ricordi, sbriciolatisi come foglie secche di rosa, con il rimpianto di un amore solo sognato, con l’urgenza di un desiderio indominabile, col bisogno corporeo di un amore assoluto atteso per tutta la vita. Un amore irrealizzabile, perché esigerebbe una fusione perfetta tra due esseri umani in un vuoto impossibile di altri legami, di altri condizionamenti, di ogni ostacolo esterno alla loro ideale simbiosi. Dall’altra parte c’è un uomo, che intende l’amore in maniera antitetica, come una battaglia effimera da vincere con la forza e con la corazza del virile orgoglio; un uomo convinto che la violenza sia affascinante strumento di conquista e di seduzione, narcisisticamente intento all’osservazione del proprio corpo nella sua più pura e attraente animalità, intento a dimostrare, soprattutto a se stesso, la propria invulnerabilità. “A diciotto anni – dice l’uomo – mia madre mi disse:/ mio caro Achille fatti togliere tutto dalle donne ma non il cuore./Mamma, sono stato perfetto”. Per l’uomo la vita rassomiglia a un mazzo di rose freschissime, dai petali ancora intatti: il piacere di un momento, la gioia del presente, la consapevole noncuranza per ciò che resta, almeno nei sentimenti. Si confrontano due maniere opposte di interpretare il desiderio, sebbene quest’ultimo, in ambedue i personaggi, si manifesti con uguale prepotenza: la ferita vera, mortale, diventa proprio l’amore, che nel desiderio carnale svanisce irrimediabilmente, come sempre finisce una festa, lasciando una scia di mesta nostalgia e nastri colorati con cui la donna continua ad adornare la propria indifesa nudità. È l’amore che induce Pentesilea a divorare Achille, per farlo davvero suo? Oppure la donna viene spinta da un desiderio funesto e irrazionale, che uccide l’amore invece di eternarlo, quel desiderio furioso che possiede anche Achille e lo rende impermeabile ai sentimenti?
Le domande restano eluse, come vaga resta l’identità dei protagonisti, l’uno e l’altro Pentesilea ed Achille insieme. Il testo di Lina Prosa è difficile, pieno di allusioni in primo luogo alla tremenda Pentesilea di Kleist. Ma lo spettatore, nella pioggia fitta di parole, sipario invisibile di profonde emozioni, avverte soprattutto la tensione verso la battaglia finale: a cui inutilmente i due personaggi, senza mai davvero confrontarsi, si “allenano”. La battaglia decisiva non ci sarà. O piuttosto: la battaglia finale che si è creduto di dover combattere con un antagonista in amore, sarà invece contro una forza buia e senza volto, indefinibile e indefinita: contro la quale l’essere umano, nonostante tutte le sue potenti armature, non ha possibilità alcuna di vittoria – come sentenzia il coro dell’ Antigone di Sofocle.
Sotera Fornaro