Intervista a Maurizio Cilli
Architetto di formazione, Maurizio Cilli dal 1993 abbandona il ruolo di urbanista per avvicinarsi all’arte, intesa come linguaggio in grado di sfuggire alle regole rigide e fiscali del governo di città e territori. Un’arte che parte dalla necessità concreta di agire responsabilmente e criticamente sui luoghi, urbani e non.
È del 1993 la fondazione di “città svelata”, gruppo dedicato a progetti di riqualificazione dello spazio pubblico che nella collaborazione tra professionalità eterogenee e cittadini vede un punto di forza e nel ruolo dell’artista una figura con una responsabilità pratica, capace di sovvertire l’ordine costituito. Un artista che non dimentica l’architettura, anzi, ne fa il cuore della sua ricerca, incentrata sullo studio delle trasformazioni dei territori antropizzati attraverso il coinvolgimento dei cittadini, veri attori sociali nella creazione dello spazio pubblico.
In occasione del Convegno nazionale organizzato da Qui e Ora Residenza Teatrale, intitolato Dal capitale relazionale al bene comune, che si terrà a Trescore Balneario in Provincia di Bergamo tra venerdì 5 e sabato 6 ottobre 2018, Maurizio Cilli proporrà Il Gioco del Loco, una performance-dibattito per attivare un confronto collettivo su arte e spazio sociale attraverso l’analisi di tematiche fondamentali per coloro che abitano o solo attraversano un territorio antropizzato. L’abbiamo incontrato prima del convengo per parlare del rapporto tra arte e territorio e con costanza è emersa la parola responsabilità: sociale, architettonica, urbanistica, artistica.
Intorno e dentro ai luoghi si sviluppa l’esperienza dei singoli, siano essi cittadini o persone solo di passaggio. Ad oggi c’è urgenza di riappropriarsi o di ripensare gli spazi che viviamo e di cui facciamo esperienza. Come arte e architettura possono rispondere a questa necessità?
Innanzitutto è necessario osservare come i cittadini che vivono un contesto, che siano residenti o meno, vivano a contatto con l’espressività degli spazi. L’esperienza del cittadino dipende molto dall’identificazione con luoghi precisi, dal fatto di vivere in spazi in cui si possa riconoscere. Spesso lo spazio pubblico viene progettato, ma non realizzato. Molti progetti interessanti non vengono presi in considerazione, per problemi vari, dalle tempistiche delle amministrazioni pubbliche alle necessità più stringenti, ad esempio quella abitativa. Come accade in quartieri dell’hinterland delle grandi città, dove l’edilizia pubblica pianifica interventi senza valutare la qualità degli spazi da progettare, ma solo l’urgenza di parziali e immediate necessità. Nel tempo, il fatto di mettere in secondo piano l’aspetto plurifunzionale e aggregativo degli spazi pubblici ha portato a una loro degenerazione e così non corrispondono alle reali necessità dei cittadini. Sono spazi monofunzionali: ci si abita, ci si dorme. È difficile uscire in strada, incontrarsi nelle piazze, creare comunità perché non c’è nulla, nemmeno i piccoli negozi di quartiere, cannibalizzati dagli anni ottanta del Novecento dall’avvento della grande distribuzione. Una tipologia di distribuzione che ha cancellato il valore sociale della strada composto da incontri, tempi più lunghi, passeggiate e luoghi commerciali dove avere un rapporto uno a uno. Qui si può agire, qui si rende necessario lavorare in una direzione diversa: restituire a questi spazi, e a chi li abita, il desiderio di vivere un contesto. Architettura e urbanistica hanno un compito diretto in questo senso e coinvolgere i cittadini nella realizzazione di spazi per la collettività può essere un punto di partenza. Attraverso l’arte questo coinvolgimento può diventare decisivo. Ma fondamentale è la parola responsabilità: chi assume l’impegno di lavorare in contesti dove ci sono bisogni disattesi ha una responsabilità. È chi opera come attore, chi governa queste trasformazioni – le amministrazioni in particolare – che deve iniziare a lavorare per una migliore qualità dello spazio pubblico.
Un problema essenziale della progettualità urbana oggi, nonché uno dei motivi per cui mi sono avvicinato al mondo dell’arte, di un’arte responsabile e sociale, è la mancanza di tempo. Porre in essere una pratica di trasformazione dello spazio pubblico necessita tempo e spesso i tempi di chi amministra sono brevi. I mandati impongono delle tempistiche quasi immediate: i progetti di solito partono nella seconda metà di un mandato e a quel punto due anni sono pochi per concretizzare un progetto. Penso la responsabilità d’azione, quando si tocca un territorio antropizzato, sia primariamente quella di permettere il superamento dei tempi di un mandato. Abbiamo bisogno di continuità e di una visione più a lungo termine.
Attraverso l’arte si può plasmare la percezione di uno spazio, un luogo può cambiare di segno, può trasformarsi. Ma uno spazio pubblico è formato innanzitutto dall’architettura: di quale architettura abbiamo bisogno per creare luoghi del vivere comune, condiviso?
Vorrei focalizzare un’altra problematica prima di entrare nel discorso. In Italia in particolare, in cui non si fa molta architettura, bensì molta edilizia, l’urbanistica cerca di rispondere ai bisogni degli operatori che lavorano nel settore immobiliare. Basti pensare all’asse Torino – Venezia, un territorio antropizzato continuo, che viene sottoposto a trasformazioni in cui lo spazio pubblico è uno degli ultimi aspetti a essere considerato. Si guarda ai bisogni economici: i quartieri vengono trasformati attraverso investimenti di operatori che lavorano per la grande distribuzione. I grandi contenitori commerciali pretendono un assetto delle strade particolare, capace di rispondere ai loro bisogni, ad esempio una grande capienza delle strade stesse per il trasporto delle derrate.
L’architettura e l’urbanistica di cui avremmo bisogno deve mettere invece al centro il pedone, che nei nuovi quartieri non ha spazio. Come persone amiamo i centri storici, i luoghi piccoli, raccolti, passeggiare per le strade pedonali che diventano spazio per incontrarsi, per il vivere insieme. Come architetti dovremmo riscoprire le opportunità che offre la strada e non progettare strade che repellono la vita. La strada quotidiana è stata sostituita dalle corsie dei centri della distribuzione di massa, non camminiamo più. Il mio non vuole essere un discorso storicista, ma un appello alla responsabilità di chi progetta gli spazi pubblici, la richiesta di uno spostamento verso un’architettura più responsabile. Gli interventi nei nuovi quartieri potrebbero guardare alla strada con maggiore attenzione, al pedone come agente privilegiato.
Sul piano espressivo, architettura e urbanistica devono tenere da conto la scala del rapporto tra lo spazio e l’uomo che deve rendere ospitali gli spazi. Bisognerebbe progettare degli spazi aperti, prestando attenzione ai vuoti. Il dialogo tra pieno e vuoto è fondamentale nella progettazione architettonica e urbanistica, bisogna lavorare sul vuoto perché dal vuoto si può partire.
Si riflette molto sulla complessa relazione tra arte e territorio, che si compone di un panorama molteplice ed eterogeneo. Quali sono le possibilità che pone in essere questo rapporto? Una buona pratica da cui partire?
Anche qui vorrei cominciare dall’osservazione della realtà attuale, perché le possibilità generate dal rapporto tra arte e territorio chiamano di nuovo in causa la parola responsabilità. Non vorrei ripetermi, ma finché nelle amministrazioni pubbliche mancano strumenti e competenze specifiche questa relazione, almeno in Italia, sarà mancante e sempre molto complessa. È necessario sottolineare come la relazione tra territorio, arte e cittadini necessiti di osservatori costanti che abbiano sguardi rivolti anche alle scienze umane, come l’antropologia. Per sviluppare le potenzialità di questo rapporto sono necessari dei tecnici, preparati e giovani. Inoltre avremmo bisogno di una legislazione in grado di dare spazio e continuità alle trasformazioni di un luogo. E questo è un problema del sistema politico.
Un’arte realmente legata al territorio permette di costruire desiderio di un luogo, il senso di appartenenza allo stesso, un’identità comune. La possibilità principale che questa relazione può realizzare è espressa molto bene da una frase di un collettivo francese di architetti e artisti, i Campement Urbain: “la creazione di “un luogo a disposizione di tutti sotto la protezione di ciascuno”. Ottenere questo risultato significa agire sul desiderio attraverso processi di trasformazione che includano direttamente le persone interessate. Da questo punto di vista l’esperienza della Fondation de France può essere una buona pratica a cui guardare. La fondazione ha progettato un protocollo intitolato Nuovi Committenti, introdotto in Italia dalla Fondazione Adriano Olivetti, in cui i committenti dell’opera sono solo in seconda battuta le amministrazioni. Le decisioni sono dei cittadini che possono commissionare un’opera d’arte spinti dal desiderio di trasformare i loro luoghi di vita quotidiana per migliorarne qualità e vivibilità. In Francia questo programma si applica in moltissimi territori e sono proprio i progetti di trasformazione di questo genere che portano a un’emancipazione del cittadino. Perché anche il cittadino ha una responsabilità. In Italia la mancanza di condizioni giuridiche favorevoli in questa direzione, la mancanza di tempo delle amministrazioni, le problematiche connesse all’assegnazione degli spazi pubblici portano a realizzare delle città che diventano specchio di queste mancanze. Non si guarda alle differenze come un valore, bensì si tende ad escludere.
Avremmo bisogno di lavorare sulla creazione di spazi aperti, transitori, su ciò che di vuoto esiste, condividendo, dalle amministrazioni, alle associazioni, fino ai cittadini, contenuti e obiettivi. Ognuno ha qui la sua responsabilità. Quella dell’artista è la condivisione del processo creativo che in particolare nella progettazione e creazione di uno spazio pubblico permette davvero la realizzazione di un’arte sociale. Un’arte fluida, in dialogo con il territorio e con chi lo abita, capace, attraverso azioni responsabili, di rigenerare lo spazio pubblico.
A cura di Camilla Fava