È un appuntamento a lungo rimandato, quello tra il pubblico fiorentino e The Dubliners. La storica creazione di Giancarlo Sepe – nella nuova versione prodotta dalla Fondazione Teatro della Toscana, con gli attori della Compagnia Teatro La Comunità e iNuovi, e con la partecipazione di Pino Tufillaro– avrebbe dovuto debuttare prima ad aprile 2020 e poi a ottobre dello stesso anno. Oggi, a sedici mesi di distanza dalla prevista prima nazionale, la Dublino di Gretta e Gabriel Conroy trova finalmente il tempo di una rinascita nella platea del Teatro della Pergola, per l’occasione svuotata dalle poltrone. Ed è nel camerino che fu di Eleonora Duse che incontro Sepe, per una conversazione sul suo rapporto con Joyce, sui suoi processi di lavoro, sul rapporto tra le generazioni dei “maestri” e degli “allievi”.

Vorrei iniziare questa conversazione dal suo rapporto, biografico e artistico, con questo spettacolo, che ormai si può definire un “classico”. Cosa significa rimettere in scena oggi The Dubliners? Cosa la lega alla scrittura di James Joyce?

Ho sempre amato I dublinesi. A partire dal 2012 ho condotto tre laboratori sui racconti di Joyce; volevo affinare la mia ricerca sul materiale umano, ben consapevole che leggere è una cosa, tradurre un testo narrativo in scena è un’altra. L’indagine si è concretata nel 2014 al Festival di Spoleto, dove ho portato la prima parte dello spettacolo. Joyce mi ha colpito molto: un po’ per la sua biografia, un po’ per le sue qualità umane, soprattutto per la voglia di affrancarsi dal dominio della città sull’uomo, da quella sorta di paralisi morale che Dublino sembra determinare nei suoi abitanti. Mi ha stregato la sua umanità, la sua perspicacia nel cogliere al microscopio tutte le caratteristiche del proprio paese, un paese che odiava per il rischio di restarne imprigionato. Secondo Joyce, a chi nasce a Dublino viene gettata addosso una rete: i dublinesi fanno tutto il possibile per districarsi da essa, ma non riescono ad affrancarsi. Poco più che ventenne, Joyce scappa per non restare ammaliato da questa abulia, da questo senso di rinuncia; racconta come, durante i suoi ritorni nella città natale, i concittadini lo fissassero, e lui fosse solito rispondere: «è inutile che mi guardiate negli occhi, io vi odio, perché ho paura di voi». Ma bisogna anche riconoscere come tutta la sua scrittura sia dedicata a Dublino. Joyce non ha scritto chissà quale romanzo inventivo, anzi è tornato addirittura a Dublino da Trieste, quando aveva già messo insieme un po’ della sua credibilità, per aprire il primo cinema della città. La visione che aveva dell’arte era realmente poliedrica, e basata sulla nozione di “epifania”: è l’epifania a salvare la giornata di chi subisce l’angheria della propria accidia, della propria mancanza di volontà e ambizione. Basta un colore, o una forma, o una luce diversa… Joyce poneva attenzione anche a un bicchiere sul tavolo di un bar, attraversato da un raggio di sole: come se quel raggio fosse un segno per farti andare avanti, per farti dire che la giornata valeva la pena di essere vissuta.

Questo spettacolo è stato molto importante, perché ha coinciso con la risoluzione del mio rapporto con Joyce, non esattamente felice. Non ho mai terminato l’Ulisse, però la lettura di Esuli, l’unico, bellissimo dramma di Joyce, mi aveva conquistato. Per questa ragione mi sono riavvicinato a The Dubliners: il suo testo più semplice, un affresco di varie storie. E infatti la lettura mi ha colpito immediatamente, e mi ha convinto a volerlo narrare, a spaccarne i motivi della narrazione per trarne, a mia volta, le epifanie che quel testo mi rimandava. Ciò che vedrà lo spettatore di The Dubliners è una forma epifanica della mia lettura di Joyce.

foto di Filippo Manzini

Testi come I morti o Il Giorno dell’Edera ben si prestano a letture attualizzanti. Quali sensi squadernano al lettore e allo spettatore odierni?

Io ho una mia idea: non bisogna mai attualizzare alcunché. La volontà di rendere attuale un testo tradisce l’idea che questo non abbia più niente da dire: ma non è affatto così. La questione centrale non è l’attualizzazione. Il Giorno dell’Edera, ad esempio, è un testo nel quale la chiarezza  descrittiva è più debole rispetto alla centralità di temi e idee, come l’irredentismo, il nazionalismo, le ipotesi di secessione dalla Corona… Così ho attinto alla mia memoria delle vicende dell’IRA, perché sentivo il racconto un po’ stantio, quasi da novella letta attorno al fuoco, decameronesca. Ciò che ho cercato di conferire al racconto è una dimensione sociale forte, un modo di mettere in luce la coscienza di questo popolo. 

Per The Dead sono partito dalle ultime parole del racconto, dalla sensazione che prova Gabriel Conroy nell’udire la neve cadere ugualmente sui vivi e sui morti: per questa ragione ho immaginato che un ministro inglese entri in un sacrario, nel quale sono sepolti i vecchi morti dublinesi. E lui ne parla come ne può parlare un inglese: «Voi, schiavi di Roma, antisemiti, ipocriti, con le vostre sbronze avete reso questa terra un orinatoio!». È allora che i dublinesi ritornano in vita, come se dovessero e potessero riscattarsi da quello che ha scritto per loro l’autore; il seguito tuttavia non avrà un esito certo. Sono gli anni della carestia in Irlanda, e dell’emigrazione verso l’America. Così ho inserito, nel dialogo tra Gretta e Gabriel, quasi una profezia: «ma tu vedrai altre terre, altri sfondi… Tu vedrai un altro mondo che ci coinvolgerà e saremo altre persone…». I dublinesi in questo spettacolo cercano di dimostrare al mondo e anche a sé stessi che non sono quei paralitici di cui parla Joyce, che non hanno nessun futuro.

La sua carriera e il suo percorso artistico e professionale sono stati contraddistinti da un legame non sempre pacificato con gli spazi: penso alle lunghe vicende del Teatro La Comunità, più volte a rischio chiusura. Accanto tuttavia a questo rapporto politico e civico con lo spazio, è evidente una ricaduta sul suo modo di utilizzarlo a livello scenico ed estetico.

Il primo fondamento della ricerca è sempre lo spazio: lo spazio è condizionante, non un ambiente amorfo che può accogliere chiunque. Al Teatro La Comunità ho potuto fare tutto e il contrario di tutto. È dal 1972 che sto alla Comunità. Sono 49 anni: e non ho mai mollato. Uno spettacolo come Favole di Oscar Wilde, con le sue quattrocentoquaranta repliche, non poteva avere luogo che alla Comunità. Ho sempre portato i miei attori a recitare lì: perché lì si prova bene, lì mi vengono le idee… Come fosse un’officina del pensiero, che si mette in moto con la libertà connaturata a quello spazio. Lo spazio detta una condizione sine qua non: ho accettato di portare The Dubliners alla Pergola soltanto perché al Festival dei Due Mondi di Spoleto, dove debuttò nel 2014, fu allestito all’interno di una chiesa longobarda, lunga e stretta. Ciò mi ha convinto della possibilità di metterlo in scena anche qui, coinvolgendo oltre al palcoscenico tutta la platea, attraversata da una tavola di oltre dieci metri di lunghezza. La tavola è un’isola, come l’Irlanda: tutto accade là sopra e attorno a essa, così da  rendere plastica quest’idea di isolamento e insieme di appartenenza a sé stessi. 

foto di Filippo Manzini

Lei appartiene alla generazione dei “maestri”. Che significato ha per lei questo termine?

È indubbio che un mio modo di agire, in teatro, sia stato solo mio, ed è forse per questo che, negli anni settanta, mi sono trovato a far parte di un gruppo di registi accomunati da una grande libertà di idee. C’erano idee! Vasilicò, Nanni, Ricci, il Patagruppo, Perlini… Io mi sono distinto per la ricerca sullo spazio: ma anche per la mia coerenza. Penso che alzare l’asticella sia sempre necessario. Quante volte mi hanno proposto di fare il seguito di Accademia Ackermann! Mi sono sempre rifiutato: come se il mio lavoro fosse quello di costruire un successo e perpetuarlo nel tempo! Io mi avventuro in Oscar Wilde, in Henry James, di cui ho messo in scena Washington Square… Mi avventuro in Boileau e Narcejac, autori della Donna che visse due volte: lo spettacolo che no ho tratto, Sudori freddi, era incredibilmente visionario, proprio come Hitchcock insegna. Mi sembra che sia questa libertà la caratteristica della mia ricerca. Inoltre ho la fissa che ogni spettacolo debba avere la propria canzone.

Qual è la ricchezza o la difficoltà del rapporto con l’attuale generazione degli “allievi”? Come declina il tema, centrale nel dibattito attuale, della trasmissione dei saperi?

Quando morirò si interromperà qualcosa. Sono stato il ponte tra l’idea di un teatro ottocentesco e uno di ricerca. Fino agli anni cinquanta, sessanta non c’era un teatro del Novecento: c’era soltanto Pirandello, con la sua rivoluzione dell’idea di drammaturgia, dell’idea di verità e di controverità. Ma se non ci fossero stati Pirandello o Rosso di San Secondo non saremmo andati da nessuna parte. Quando ho cominciato a fare teatro, nel 1967, mi sono dedicato innanzitutto alla messa in scena di un testo: ho cominciato con Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, poi ho fatto Morti senza tomba di Sartre, Donna Rosita nubile di Lorca, Metamorfosi di Kafka, Ubu re di Jarry fino ad arrivare a Finale di partita di Beckett, che ha profondamente cambiato il mio approccio. Ho messo al centro del mio lavoro l’idea della tensione musicale all’interno dell’attore: la narrazione non è mai scevra di musiche, che costituiscono sempre un copione parallelo a quello reale. Da allora è cambiata la mia direzione registica: per me non sono fondamentali la scenografia o i costumi, bensì quell’osmosi che c’è tra attore e spazio. E accanto a questo, centrale è l’intervento sulla drammaturgia del testo, che in questi ultimi anni è diventata sempre più legata al romanzo. Mi sembra che il romanzo, a differenza del testo teatrale, possa offrire maggiori spazi di intervento personale, perché ha una modalità di narrazione che lascia spazio all’interpretazione. Ecco perché è nato The Dubliners, ecco perché ho fatto Washington Square, ecco perché ho fatto Barry Lindon, ecco perché ho fatto Sudori freddi e Germania Anni ’20, il mio ultimo spettacolo sulla Repubblica di Weimar andato in scena alla Comunità prima dell’epidemia e che verrà portato a dicembre di quest’anno alla Pergola. E continuerò così. Ecco perché ci metto più tempo – due mesi, due mesi e mezzo – per mettere in piedi uno spettacolo: perché parto proprio dall’alfabeto. Ed ecco infine perché amo i giovani attori, di solito più disponibili. In qualche modo, sto cercando di costruire – per me e anche per il futuro del teatro – il nuovo giovane attore, che diventerà nel tempo il primo attore. Il fatto che sia dinamico, che reciti e canti, che non abbia alcuna difficoltà in questo, mi fa capire che mi trovo di fronte all’attore giusto. Però gli attori sono spesso spaesati da questo approccio, quasi come se avessero loro insegnato che è meglio stare all’ombra di un testo, piuttosto che in mezzo al deserto, dove provare a comunicare e a ideare. Come diceva Lee Strasberg: «Posso lavorare con tutti, ma non con gli attori che non hanno fantasia, che non hanno inventiva».

Chi è l’attore di Giancarlo Sepe?

Io sono famoso per i miei provini, da sempre molto lunghi. Se l’attore va bene, posso stare su di lui anche un’ora, un’ora e mezza. Se invece l’attore è superficiale, se arronza come si dice a Napoli, il provino dura cinque, dieci minuti. Quindi rispondo così: l’attore di Sepe non si ferma davanti a niente. Tutti quanti, appena chiedo se sanno cantare, rispondono: «Ma io non sono un cantante»… Lo so! Perciò voglio che l’attore canti: perché non deve fare il cantante! Deve fare l’attore! La parola viene da una verità ineludibile, interiore: non è una canzone che tu prepari, è un’emanazione spontanea, e io lavoro su questa spontaneità. Parto sempre dall’improvvisazione. Le prove iniziano sempre con due ore di improvvisazione su musica, dove l’improvvisazione però – e questo è il segreto – viene fatta da tutto il cast, tutti insieme in uno stesso momento. Per interagire con la musica, parto da un tipo di allenamento che è onomatopeico: se la musica fa ta ta ta tu fai ta ta ta. Che vuol dire questo ta ta ta? Ancora niente, però andiamo avanti, vediamo come si insinua tutto ciò nella tessitura drammaturgica, e vediamo cosa produce in te. Ecco perché il lavoro è così lungo: perché cerco di creare un ascolto speciale. Gli attori, nelle interazioni sul palco, spesso non si guardano negli occhi. È una cosa difficile, per loro, perché è come se si sentissero impudichi, spudorati. Ma se non guardi adesso il tuo interlocutore, quando lo guarderai? Mi ricordo che durante una prova generale, Aroldo Tieri, dopo più di un’ora di spettacolo, si girò verso di me domandandomi: «Giancarlo, perdonami, perché questo signore non mi guarda mentre stiamo colloquiando in scena?». E quel signore lì non era un attore di poca esperienza, era un attore importante! Ma Tieri ce l’aveva a morte con questo pressappochismo dello sguardo, del movimento. In venti anni di attività con Aroldo, ho ottenuto da lui cose che diceva di non avere mai fatto in vita sua, e che tuttavia gli uscivano come spontanee. Ecco, è questo quello che faccio.

Alessandro Iachino


Foto di © Filippo Manzini

dal 1° al 14 ottobre 2021, Teatro della Pergola, Firenze
THE DUBLINERS
con gli attori della Compagnia Teatro La Comunità e iNuovi
e con la partecipazione di Pino Tufillaro
da James Joyce
con Maddalena Amorini, Davide Arena, Sonia Bertin, Alessandra Brattoli, Federica Cavallaro, Manuel D’Amario, Davide Diamanti, Fabio Facchini, Ghennadi Gidari, Camilla Martini, Laura Pinato, Federica Stefanelli, Guido Targetti, Erica Trinchera, Lorenzo Volpe
scene e costumi originali Carlo De Marino
musiche Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team
disegnatore luci Umile Vainieri
costumi Elena Bianchini
regia Giancarlo Sepe
produzione Fondazione Teatro della Toscana