Abbiamo intervistato Carmelo Rifici, uno dei due registi di Processo Galileo, lo spettacolo al debutto presso il teatro LAC di Lugano il 7 novembre 2022.
Andrea De Rosa, Carmelo Rifici, Angela Dematté, Fabrizio Sinisi – due registi, due drammaturghi e uno spettacolo così coerente: com’è possibile? Dove inizia una regia e dove l’altra?
Abbiamo cercato di dare una coesione a un progetto che nasce dalla fusione di due produzioni dedicate a Galileo Galilei, e non far sì che le nostre visioni prendessero il sopravvento: dal punto di vista dei registi, ognuno di noi voleva abdicare alla propria personalità per cercare di sposare le personalità di entrambi. E così è stato anche per gli autori. Inizialmente erano come due spettacoli, ma ora è inutile dire che una parte l’ho diretta io e una parte Andrea: abbiamo provato a darci questa regola all’inizio, per non confonderci, ma l’abbiamo persa nel giro di poco.
Abbiamo immaginato una “riforma” della regia: anche se per noi il senso della regia rimane importante, oggi si sta perdendo l’idea che il regista sia il solo e unico artefice di uno spettacolo. Abbiamo tentato allora di pensare un lavoro in cui ognuno di noi, rispettando la visione dell’altro, stesse in ascolto per trovare una via di mezzo. Abbiamo posto anche gli attori nella condizione di non sapere bene chi dovessero ascoltare: dovevano in qualche modo tutti aderire all’idea che il progetto avesse bisogno di una grande libertà.
Perché in Processo Galileo una stessa attrice, Milvia Marigliano, rappresenta due ruoli così opposti, come quelli dell’inquisitrice e della madre della protagonista?
La chiesa è stata una grande madre, è inutile nasconderlo. Bisogna vedere cosa è stata la chiesa cattolica, senza essere minimalisti nel pensiero. Il processo a Galileo è durato quarant’anni, non quaranta giorni o quattro minuti: quarant’anni di tentativi per trovare un punto d’incontro. Quest’ultimo, certo, alla fine non si è trovato, perché non si riusciva ad accettare di essere “una palla che vortica all’infinito”: la gente non era pronta. Di qui il compromesso, con Galileo, di affermarlo solo per supposizione. Così la storia è andata avanti. Con Galileo succede quindi una cosa interessante: il sistema sacrificale di cui siamo capaci – tutto il nostro mondo è fatto di sacrifici, da Cristo ai linciaggi televisivi – per una volta si è spezzato. Galileo scende a compromesso e decide di non morire sacrificato per la verità. Questa è la grande rivoluzione.
Nello spettacolo ciò avviene anche alla madre: esattamente come l’inquisitrice, cerca in tutti i modi di trovare un accordo che, neanche in questo caso, si trova.
Nello spettacolo, la scenografia e i colori sono molto evocativi: risaltano in modo particolare i costumi a tinte unite, ben distinti tra loro. A cosa è dovuta questa scelta?
Ci siamo divertiti a immaginare una situazione alla Giotto: colori come il blu, il rosso e l’oro sono quelli dei suoi quadri. Lo spazio che abbiamo creato è un laboratorio artistico e il pianoforte che abbiamo posto al centro è significativo: si tratta, infatti, della macchina più sofisticata che l’uomo abbia inventato, perché produce bellezza attraverso il totale controllo di chi lo suona. È, insomma, l’unico strumento ove la conoscenza si concilia con la cura, perché tutte le volte che viene suonato, commuove.
Nello spettacolo, appunto, vi è invece un contrasto fra religione e scienza e un rapporto oppositivo fra una madre piena di cure e lo scienziato appassionato di conoscenza. C’è la possibilità di un’unione di questi due elementi?
È ciò che cerca la ragazza protagonista dello spettacolo: qualcosa che le indichi come tenere insieme la cura e la conoscenza. Nonostante la presenza del pianoforte sulla scena, lo spettacolo non dà una risposta, ma mostra chiaramente la tensione della ricerca. La ragazza cerca l’utopia di un futuro in cui le due cose possano conciliarsi: da una parte c’è la scienza, che inventa la bomba atomica, ma salva dalla malattia, dall’altra la madre, che si prende cura della terra, ma dà risoluzioni che non sono più attuali. Nessuna delle due strade riesce a rispondere all’inquietudine della ragazza. Però questo non significa che non ci sia un modo: lei è alla ricerca, questa è la cosa importante.
L’eresia è, per definizione, una deviazione rispetto a un credo, in questo caso cattolico. Ma è davvero solo questo? È ancora possibile, nel presente laico che viviamo, in cui il cattolicesimo ha del resto perso la sua presa sull’essere umano, essere eretici?
Oggi il cattolicesimo non ha più il potere inquisitorio, anzi si è anche aperto ad altro. Eppure, l’eresia esisterà sempre, finché ci sarà una parte del mondo che dirà a un’altra che ciò che pensa non è legittimo. Penso che l’eresia sia una caratteristica naturale dell’umano convivere: esisterà sempre, infatti, un dissenso rispetto alla cultura e al potere dominanti e ciò sarà continuamente messo a repentaglio, perché porta caos nella struttura mentale preesistente.
Il teatro stesso getta un segno eretico nel mondo, perché rappresenta punti di vista nuovi, nuove narrazioni, afferma che ciò che si pensa potrebbe essere spostato. In una società ove vige un pensiero dominante unico, questo è eresia.
Eppure, vi è anche un altra attitudine che si può affiancare all’eresia ed è: “essere olistici”, ovvero avere la volontà di “mettere insieme” diverse prospettive. Ci sono infatti due possibilità di essere eretici: quella di Giordano Bruno e quella di Galileo. Giordano Bruno consegna se stesso al sacrificio in nome della verità che ha scoperto, che è anche la strada di Cristo. Galileo, invece, non arriva a tanto, ma fa un passo indietro affinché una verità non inventata da lui possa proseguire la sua strada.
E oggi? Io, ad esempio, trovo la mia eresia personale nel tentativo di contrastare il sistema di linguaggio del mondo ogni volta che esso tenta di dire che è sbagliato il mio desiderio di complessità. Il mondo chiede di essere semplice, di “farla facile”… Io rispondo: rivendico il mio diritto alla complessità. Non si può chiamare proprio “eresia”, forse, ma comporta comunque dei seri problemi nella gestione dei rapporti.
Come si pone il teatro rispetto a tutto questo, a un ordine che limita? Crea una regola alternativa? Propone un nuovo ordine, consiglia una nuova strada allo spettatore?
Il teatro deve aprire. Non dà la regola, la toglie: cioè spinge a stare in una situazione molto diabolica, sulfurea, vulcanica, complessa. L’importante è questo senso della conoscenza e riuscire, con esso, a non scindere le due parti, religione e scienza. Perché rinunciare a certi valori della religione? O perché rinunciare a certe verità della scienza? Perché invece non accettare che siamo esseri complessi, che possono leggere il mondo sia attraverso simboli, sia attraverso la tecnologia?
Per questo, anche il teatro si deve nutrire di molteplici linguaggi, perché parla della complessità dell’uomo. Eppure, sul palco ciò non è fatto per spaventare e paralizzare il pubblico, al contrario: si vorrebbe anzi incoraggiarlo al movimento, a interrogarsi e a interrogare il circostante.
Forse è utile sapere che l’esistenza non è un cerchio, ma è più vicina alla spirale: non è qualcosa di perfetto, di razionale, c’è molta irrazionalità nel tutto. Abbiamo una parte razionale e una irrazionale: cosa succede se le due parti non sono in equilibrio, quando si va troppo nella razionalità o troppo nell’irrazionalità? Probabilmente il nostro essere umani, il nostro essere senzienti, consiste in questa ricerca di un equilibrio e, se la ragazza di Processo Galileo compie quel percorso, è perché non ha ancora trovato questo equilibrio.
Marta Pizzagalli
Lisa Riva
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica