Francesca Garolla è diplomata in regia all’Accademia di Arte Drammatica Paolo Grassi e dal 2004 collabora con Teatro i come dramaturg, interprete e parte della direzione. Negli ultimi 10 anni ha iniziato anche un percorso come autrice che le ha portato numerosi riconoscimenti in Italia all’estero, l’ultimo dei quali la messa in scena del suo testo Tu es libre al Piccolo Teatro ad ottobre 2020. Una carriera poliedrica che offre molti spunti interessanti di riflessione sul sistema teatrale italiano, in particolare sulle dinamiche che riguardano la difficile fase di transizione da artista under a over 35 e sul rapporto con il pubblico più giovane.

Ormai da più di un decennio sei parte dello staff di Teatro i. Questo ti permette di avere una visione privilegiata dei meccanismi più interni della produzione teatrale. Secondo te quali sono i principali limiti per un under 35 e quali le opportunità?
L’apertura agli under 35 è un aspetto valoriale nei bandi del ministero e lo è stato soprattutto negli ultimi anni, con ulteriori riforme puntate al ricambio generazionale. Le possibilità per i più giovani sono sicuramente aumentate. Bisogna anche considerare, però, che non si smette di lavorare a 35 anni e queste facilitazioni spesso risultano estemporanee in un ambiente come quello teatrale. Si va sempre a puntare più sulla quantità di produzioni piuttosto che sull’accompagnamento alla produzione e sul raggiungimento di una sostenibilità artistica, che è molto difficile da ottenere a prescindere dall’età. Certamente creare spazi di visibilità per gli artisti che cercano di emergere è un punto di partenza positivo su cui bisogna continuare a lavorare. Ultimamente si stanno aprendo altre opportunità, anche grazie a direzioni artistiche illuminate come quella di Antonio Latella alla Biennale. Anche nel contesto internazionale esistono molti progetti orientati in questo senso: con Teatro i, ad esempio, abbiamo aderito a Fabulamundi, un network europeo che non si rivolge direttamente agli under 35 ma mira proprio a promuovere la drammaturgia contemporanea che rischia di rimanere sconosciuta.

A proposito di nuova drammaturgia, a dicembre Teatro i ha lanciato una chiamata per autori emergenti, specificando che non si intende “giovani o under qualcosa, significa autrici/autori che non abbiano avuto più di due testi prodotti in ambito professionale”. Da dove nasce questa iniziativa?
Il focus di Teatro i è sempre stata la drammaturgia contemporanea, ma negli ultimi anni abbiamo iniziato a interessarci soprattutto a quella “sommersa”. Dieci anni fa se si parlava di drammaturghi contemporanei ci si riferiva ad autori del ’900 come Heiner Müller e Thomas Bernhard. Noi pensiamo che sia importante porre l’attenzione su una contemporaneità differente, su quegli autori viventi, più o meno giovani, che faticano a trovare uno spazio per i propri testi: la possibilità di riuscire ad avere una produzione è veramente limitata senza una compagnia e non ci sono case editrici specializzate in drammaturgia. L’idea della call è quella di andare a scovare drammaturgie nascoste, che sono effettivamente tantissime e nascono da percorsi molto differenti. Oltre a chi esce dalle scuole di scrittura drammaturgica, che comunque in Italia sono davvero poche, ci sono autori che hanno avuto una formazione non specificamente legata alla scrittura e non sanno proprio da dove iniziare per farsi conoscere. Abbiamo pensato che un momento come questo, in cui i teatri sono chiusi, fosse l’occasione giusta per rendere accessibile qualcosa che di solito non è. La call si tradurrà infatti in una selezione ad opera di un comitato di lettori che deciderà quali testi inserire nella biblioteca online. Penso che mettere questi testi a disposizione di chi desidera leggerli sia molto importante. Negli ultimi anni ho conosciuto molti drammaturghi grazie a Fabulamundi e ho avuto la possibilità di approfondire meglio il panorama autorale, realizzando anche dei workshop per professionisti under 35. Ho trovato un’enorme varietà di linguaggi, di immaginazione, di mondi e di formazione che si fatica a conoscere se non si è all’interno di iniziative come queste. Perché come è vero che gli autori hanno difficoltà a trovare degli interlocutori, è anche vero che chi vuole scoprire la drammaturgia contemporanea non ha molte possibilità di accedervi. Ci sono tantissime persone che scrivono, basta pensare a quanti fanno domanda per i vari premi di scrittura teatrale: è impressionante pensare a quanta creatività ci stiamo perdendo.

Come mai tra i parametri per partecipare avete deciso di concentrarvi su un numero di produzioni piuttosto che sull’età?
Abbiamo pensato che chi fosse stato prodotto per più di due volte in Italia avesse già avuto un po’ di visibilità e, augurabilmente, avesse anche una rete di contatti nel settore. Quindi abbiamo deciso di rivolgerci a quegli autori che hanno fatto tutto quello che potevano, magari anche vinto dei premi o avuto delle segnalazioni, ma non sono riusciti a vedere sulla scena i loro testi, nati per il teatro. Abbiamo deciso quindi proporre un nuovo parametro perché quello dei 35 anni è rimasto immutato nel tempo e ormai risulta inattuale rispetto al panorama teatrale. Una carriera artistica non diventa immediatamente stabile una volta che si compiono 35 anni, anzi.

Per quanto riguarda il tuo lavoro di dramaturg e autrice, invece, quali difficoltà hai incontrato per affermarti?
Sicuramente, anche per me, il primo ostacolo è stato quello della visibilità. Ma io ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare nel teatro prima di cominciare a scrivere e soprattutto di collaborare costantemente con un unico teatro. Quando ho scritto il mio primo testo ho quindi potuto presentarlo all’interno di Teatro i con la regia di Renzo Martinelli, con cui lavoravo già da tempo. Questa apertura però non ha coinciso immediatamente con una riconoscibilità, anche perché non avevo una formazione autorale. Non ho fatto l’Accademia di arte drammatica come drammaturga ma come regista. Non avevo neanche una tradizione alle spalle dato che per tutti gli anni precedenti avevo fatto sostanzialmente la dramaturg e qualche volta l’interprete e la regista. I primi anni sono stati molto difficili in questo senso, perché ero una figura un po’ complessa da collocare, non ero vista come un’autrice pura ma solo come un elemento, forse un po’ troppo poliedrico, di una struttura. La vera svolta è avvenuta quando il mio primo testo, N.N. Figli di nessuno, è stato scelto da un traduttore che ne aveva ascoltata una parte e aveva deciso di chiedere finanziamenti per tradurlo in francese e proporlo all’interno del progetto “Face à Face, parole d’Italia per scene di Francia”, promosso dalla Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo e ideato da Pav. In un solo anno, anche se nessuno mi conosceva, è andato in scena a le Théâtre – Scène Nationale de Saint-Nazaire, al Festival Ring / La Manufacture – Centre Dramatique National Nancy-Lorraine, e al Théâtre National Populaire de Villeurbanne La Colline a Lione. Da lì mi si è aperta tutta una serie di possibilità, soprattutto nel contesto francese: un altro testo, Solo di me – se non fossi stata Ifigenia sarei Alcesti o Medea, è stato selezionato e presentato come mise en espace durante le giornate del Festival di Avignone e ho realizzato alcune residenze all’estero. Devo dire che in questo senso il mio è stato un percorso abbastanza strano, perché, pur lavorando principalmente in Italia, il riconoscimento è venuto prima da fuori. Il che mi fa molto riflettere sul sistema teatrale del nostro paese.

Ad esempio, quali opportunità hai trovato in Francia?
La principale è stata sicuramente il sostegno nella fase di ideazione e di scrittura, che in Italia non esiste. Qui se vuoi scrivere un testo devi lavorarci da solo, sperare che ci sia qualcuno che voglia realizzarlo e poi produrlo, solo a quel punto, puoi ottenere il diritto d’autore dalla SIAE, ma è sempre e comunque commisurato al numero di repliche fatte. In alternativa esistono le commissioni, questo è vero, ma sono rare e tendenzialmente sottopagate. In Francia invece ho potuto dedicarmi totalmente alla scrittura grazie a tre residenze in tre anni.
Per quello che riguarda l’Italia, per il mio Tu es libre, l’unico finanziamento che ho ottenuto è stato tramite Movin’up, un bando del GAi (Giovani Artisti italiani) che sostiene i singoli artisti o le compagnie under 35 per progettualità internazionali attraverso la copertura delle spese. E poi, dato che l’anno successivo chi aveva già ottenuto dei contributi poteva partecipare ad un premio, che sono riuscita a vincere, ho ottenuto un altro piccolo contributo. Questo meccanismo però funziona solo per gli under 35, quindi adesso non ho più accesso a questi finanziamenti.
È un discrimine molto limitante, perché in Italia non ci sono bandi simili per le altre fasce d’età, nonostante dai 35 anni in poi cambi veramente poco. Certo ho avuto altri riconoscimenti – nel 2020 sono stata l’unica europea della mia sezione ad essere scelta per una residenza alla Cité Internationale des Arts di Parigi – ma se pensiamo al punto di vista puramente economico non esistono canali di sostegno per quanto riguarda gli autori over.

Tu es libre (ph: © Luca Del Pia)

E invece in Italia quale orizzonte si trovano di fronte i giovani autori?
In Italia, oltre al limite di un panorama non troppo aperto ad accogliere una scrittura originale, si continua a sostenere la creazione artistica solo sotto l’aspetto della produzione e senza aiutare l’autore nel suo tempo creativo. È per questo che gli autori che si occupano solo di scrivere sono davvero pochi, la maggior parte per mantenersi deve appoggiarsi ad altri ruoli o alla formazione. Ma il mio lavoro di autrice sta nell’ideazione e nella scrittura, che sono totalmente lasciate all’autoinvestimento. Anche in Francia ci sono delle facilitazioni per i più giovani, ed è assolutamente corretto dato che chi lavora da pochi anni deve essere aiutato ad emergere, ma i meccanismi di sostegno alla figura dell’autore sono però molto diversi e più estesi: quando si scrive un testo si è già supportati e le fasi di creazione e produzione sono legate. La stessa SACD, che è il corrispettivo della nostra SIAE, fornisce sostegno agli autori francofoni in fase creativa. Io sono stata molto fortunata a trovare finanziamenti pur scrivendo in italiano.

Come queste esperienze hanno contribuito a un’evoluzione del tuo stile e del tuo modo di lavorare?
Penso che ciò che ha più contribuito a potenziare il mio processo sia stata la possibilità di avere dei momenti di creazione sostenibili, perché se quando si scrive si è costretti a fare molte altre cose il livello di ricerca e approfondimento viene inevitabilmente compromesso. Da un punto di vista anagrafico ho iniziato a scrivere abbastanza tardi, a 29 anni, mentre lavoravo in teatro da quando ne avevo 23. Avevo dalla mia l’esperienza teatrale ma non quella della scrittura, che ho gradualmente acquisito grazie a una maturità legata all’età, certo, ma anche alla possibilità di fare ricerca, di sperimentare. Credo che il vero scarto nella mia scrittura sia avvenuto a 33 anni, non tanto perché ero “diventata grande”, quanto, piuttosto, perché il mio orizzonte di riferimento si è aperto all’internazionalità.

Alla luce delle tue esperienze con i progetti di formazione, come vedi in questo momento il rapporto tra teatro e giovani?
Rispetto alla formazione, ho collaborato con l’università Statale di Milano per alcuni workshop di drammaturgia e regia. Il primo workshop era rivolto agli studenti di un corso specifico di filosofia teoretica mentre quello successivo era aperto a chiunque volesse partecipare; nonostante avessi chiesto un numero limite di 18 iscritti credo di averne avuti quasi 50. Certo, si può guardare a questo fatto in maniera negativa e pensare che fosse un modo per guadagnare crediti senza fare troppa fatica. Io però preferisco vedere questa grande adesione come qualcosa di molto significativo: spesso ci dimentichiamo che il pubblico non si coinvolge per coercizione ma per partecipazione. È normale che ci piaccia di più quello di cui abbiamo avuto un’esperienza positiva. In una situazione di quel tipo ho visto nei ragazzi la voglia di scoprire qualcosa che non conoscevano: il laboratorio era nello specifico sulla drammaturgia contemporanea e sul percorso che porta dal testo scritto allo spettacolo. Un’altra esperienza sicuramente positiva è stata quella con gli studenti delle superiori che hanno partecipato ad Acrobazie Critiche, perché anche in questo caso le persone erano coinvolte in prima persona e potevano dire la loro in una situazione protetta. Riuscire ad avvicinare il pubblico giovane quando non si ha la possibilità di creare percorsi di questo tipo è la sfida è più grande.

Cosa pensi che si debba fare per avvicinare i giovani a teatro?
Di solito i ragazzi che frequentano il teatro lo hanno intercettato vivono in contesti in cui le abitudini culturali sono radicate oppure appartengono ad una categoria estemporanea, come quella degli “amici degli amici”. C’è un vasto pubblico potenziale che potrebbe e dovrebbe essere avvicinato, e penso che questo si possa fare attraverso progetti culturali specifici. A breve con Teatro i lanceremo una call per lettori-spettatori che vorremmo coinvolgere nella selezione di una serie di testi da realizzare come podcast online. Spero che ci sia anche una risposta da parte dei giovani, che magari hanno più familiarità con strumenti digitali rispetto al mediamente anziano pubblico teatrale. A volte è il teatro stesso che esclude: con più possibilità di partecipazione attiva penso che anche i ragazzi possano iniziare a vederlo come qualcosa di meno estraneo e complesso.

Il tuo spettacolo Tu es libre è stato messo in scena al Piccolo proprio poco prima della chiusura dei teatri. Che impressione ti ha lasciato questa esperienza sul futuro del tuo settore dopo la situazione emergenziale?
Rispetto a Tu es libre devo dire che ho sentito la dimensione dell’emergenza solo fino a un certo punto. Non ho avuto l’impressione che le persone si sentissero in una situazione rischiosa, tant’è che i numeri sono stati molto buoni considerando la capienza del teatro. Non credo che la percezione del pubblico cambierà davvero a seguito di una situazione come questa, però la fruizione culturale ha anche una dimensione di abitudine e penso che perderla possa essere rischioso. Probabilmente nel momento in cui si tornerà alla “normalità”, se proviamo a riferirci ad una immaginaria scala dei bisogni, l’andare a teatro potrebbe essere secondario rispetto ad altre necessità come, semplicemente, quella di tornare ad una socialità libera da vincoli. Questo un po’ mi preoccupa, ma se vogliamo trovare un lato positivo penso che in questi mesi l’ambito teatrale abbia comunque ottenuto visibilità, quindi potrebbe accadere che anche grazie a questa situazione si vada a intercettare un pubblico non abituale. Alle volte ci si accorge delle cose quando mancano, mi dico.

Tu es libre (ph: © Luca Del Pia)

Dal tuo punto di vista quali sono le categorie che si troveranno maggiormente in difficoltà?
Penso che si tratterà proprio di quella degli autori, poco visibili prima e ancora più invisibili ora. Inoltre, in molti casi, non hanno nemmeno potuto accedere ai sostegni promossi dallo Stato

Secondo te questa situazione sarà più difficile per i giovani?
Il tempo si è fermato per tutti. Io, per esempio, sarei dovuta andare a fare tre mesi di scrittura a Parigi nel 2020, ovviamente ho dovuto rimandare e continuo a pensare che ho perso un anno di lavoro. Ma è un disagio comune a molte persone.
Al tempo stesso la creatività non si è fermata, quindi, quando tutto ripartirà, i progetti annullati, i progetti sospesi, i progetti pensati in questo periodo saranno tantissimi e tutti vorranno recuperare il tempo perduto. Quanta di questa creatività rimarrà invisibile?
Io, più che per i giovanissimi che si sono affacciati adesso a questo settore e che credo potranno riprendere il loro percorso dove lo avevano interrotto, sono preoccupata per tutti coloro che si trovavano in un momento di crescita professionale e sono rimasti bloccati. La concorrenza è alta, dopo l’emergenza lo sarà ancora di più, e il panorama teatrale fatica a coltivare i percorsi artistici. Spesso li illumina per un momento, ma poi se li lascia scappare.

a cura di Caterina Rebecchi