Il titolo di questa edizione del Festival Lecite Visioni è metamorfosi: cosa ti ha mosso a scegliere questa parola? Il termine si riferisce più alle identità o alle forme artistiche?

In questa edizione del festival ho scelto come sottotitolo una frase di Ovidio, «tutto muta, nulla perisce»: è un elogio della non definizione, della trasformazione, del non fissare. In quest’epoca di incertezze, significa rendere l’indefinito possibilità e non causa di ostilità. Il tema della metamorfosi dunque si collega principalmente al concetto di identità in una prospettiva politica più che alle forme artistiche, che tuttavia sono molteplici e varie e riflettono l’orientamento che cerco di offrire al festival, fin dall’inizio della mia curatela artistica, condotta con molta libertà, ormai da tre anni. 

Qual è stato l’approccio nella scelta degli spettacoli in programma quest’anno?

Ho voluto dare maggiore spazio alla queerness, un tema che attraversa tutti gli spettacoli della programmazione. Ho coinvolto realtà attive sul territorio come è avvenuto con lo spettacolo Io sono Arcadia, sentendo l’esigenza di dare voce e corpo ad artisti che lavorano a Milano, ma che non hanno ancora avuto la possibilità di esprimersi pienamente in spazi più strettamente teatrali. Con altri artisti ero già in contatto e, durante la fase di ideazione del festival, ho cercato di capire se avessero progetti in cui Lecite Visioni avrebbe potuto offrire loro un supporto. È stato così con Ksenija Martinovic, dramaturg dello spettacolo di Daphne Burn your village, e per Roberta Lidia De Stefano, regista e attrice di Hotel Dalida. Un altro elemento che ha guidato la mia selezione è stato provare a intercettare capacità diverse di offrire visioni intense e profonde, in grado di affrontare temi attuali e necessari con autenticità e forza espressiva.

Michele Di Giacomo

Che pubblico immagini, o desideri, per questa edizione del festival?

Il festival si rivolge a un pubblico ampio, il più ampio possibile. Sicuramente penso alla comunità LGBTQIA+, che qui trova uno spazio protetto e di rappresentazione, ma il Teatro Filodrammatici sarà aperto proprio a tutte, tutti e tutt*. Inoltre, auspico sempre il contatto e la contaminazione con altre realtà di Milano, che oggi si presenta come una città con una presenza importante di persone queer. Ma la totalità dei potenziali spettatori di Lecite Visioni non vuole esaurirsi con questa platea, dentro alla comunità: il nostro obiettivo è accogliere non solo persone che si sentano rappresentate, ma anche che siano interessate più in generale ai temi, alla proposta artistica, allo spettacolo dal vivo.

Come percepisci il termine queer in relazione al festival?

Se un tempo la definizione di queer aveva una connotazione dispregiativa, oggi abbraccia uno spettro più ampio e quest’anno ho voluto sottolinearlo. Mentre nella scorsa edizione ogni spettacolo affrontava un tema specifico legato all’orientamento e all’identità, oggi invece è l’intero festival a farsi politico, a essere queer nella sua accezione più ampia e sfumata. Ad esempio, in Apocalypsync Luciano Rosso racconta la sua esperienza durante la recente pandemia e la sua esigenza di dialogare con qualcuno attraverso trasformazioni continue in una moltitudine di personaggi che lo accompagnano nella solitudine del suo appartamento. È a questo proposito che parlo di queerness: queer è tutto ciò che esce dall’ordinario, che non riesce e non vuole essere circoscritto e incasellato. Non è solo non definirsi, ma anche non farsi definire: è uno spazio di libertà rivendicato, che può anche essere l’incertezza. Tutta la programmazione prova a mantenere questo approccio: gli spettacoli stessi si presentano come unione di forme ed esperienze differenti. Come in Controtempo, nato dalla collaborazione di Diego Piemontese, stand-up comedian, e Eliana Rotella, drammaturga di formazione, trovatisi a dialogare partendo da due impostazioni professionali molto diverse.

Luciano Rosso, Apocalipsync, @Maca De Noia

Quale funzione pensi che abbia un festival apertamente LGBTQIA+ come Lecite visioni oggi? 

Chi si occupa di programmazione artistica non può ignorare il fatto che ogni scelta compiuta e ogni spazio offerto agli artisti è inevitabilmente in stretta connessione con il presente e il contesto sociale in cui viviamo. Un festival di arti performative, in questo senso, dovrebbe ambire a incidere sulla realtà, instaurando con essa un dialogo ricorrente e autentico. Un progetto teatrale che trascura questa dimensione rischia di svuotarsi di significato, perdendo il senso di esistere. Poi, se un festival come Lecite Visioni possa effettivamente modificare la società diviene un discorso più complesso. È la grande domanda che riguarda tutte le arti performative, non solo quelle connesse al queer: possono davvero produrre un cambiamento? Possono modificare il pensiero, il modo di guardare l’altro e di stare al mondo? Allo stesso tempo, credo sia importante riconoscere che portare in scena la bellezza e la poesia è già di per sé un atto politico. L’arte ha il potere di offrire nuove prospettive sulla realtà e di rivelare l’umano in modi inattesi. Io cerco di agire il cambiamento mettendo in relazione gli spettacoli a eventi, laboratori e presentazioni in modo da creare spazi di discussione e di incontro con il pubblico. Non credo siano sempre necessarie grandi rivoluzioni per incidere sulla realtà: è nella costanza dell’agire, nella presenza continua e consapevole delle piccole cose che risiede la possibilità di trasformare il modo in cui viviamo e immaginiamo la società.

Nonostante tutta l’attenzione dedicata alla ricerca queer, ai linguaggi e alla rappresentazione, continua l’ascesa delle destre estreme in Europa: abbiamo sbagliato qualcosa?

Probabilmente sì, inconsapevolmente. Abbiamo commesso degli errori, perché a guidarci non è stato il desiderio di dialogare con la società, ma piuttosto la necessità di inseguire i nostri obiettivi personali, che, di per sé, non è qualcosa di totalmente sbagliato. Tuttavia, credo che ci siamo concentrati soprattutto sui linguaggi dell’arte, non tanto come strumenti per entrare in contatto autentico con il pubblico, ma come pura ricerca estetica, spesso scollegata dai contenuti. Questo distacco dai significati profondi potrebbe essere stato un errore.
Come artisti e artiste, ci muoviamo in un sistema fragile, che non si autosostiene e che dipende costantemente da economie esterne. È questa precarietà strutturale ad averci spesso spinto a rivedere, riorientare o persino snaturare il senso del nostro lavoro. Considerando il contesto politico e sociale odierno, credo che nei prossimi anni assisteremo a trasformazioni inevitabili che riguarderanno tutte e tutti. Lo sento già ora: siamo costretti a cambiare. Non so se porterà a qualcosa di buono o dannoso, ma è un processo in atto. In ogni caso, dal punto di vista teatrale abbiamo attraversato un momento di grande fermento: ci siamo liberati da forme rigide, abbiamo sperimentato, trovato linguaggi ibridi, dando vita a esperienze nuove, spesso nate dal basso, con l’intento di sovvertire le istituzioni e de-istituzionalizzare le forme artistiche. Non possiamo allora attribuire tutta la responsabilità della crisi che viviamo agli artisti: l’economia e la politica hanno un peso determinante, anche proprio in relazione alle arti. Stiamo vivendo una crisi globale che, in parte, va oltre le nostre possibilità di singoli individui. E temo che anche se fossimo riusciti a raccontarla, cosa che probabilmente non abbiamo fatto, non so se questo avrebbe davvero cambiato le cose.

a cura di Bianca Polissi e Matteo Martinelli


L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025