“Il Novecento sarà il secolo di Oreste e di Elettra”, ebbe a dire Heiner Müller. Non aveva torto: le riscritture e i ripensamenti dell’Orestea di Eschilo si sono susseguiti, richiamati e rincorsi per tutto il secolo. Da un lato le letture freudiane, con l’indagine psicanalitica dei rapporti infra-familiari in chiave di incesto (su tutti: Elektra di von Hofmannsthal e Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill); dall’altro le interpretazioni politiche, con particolare insistenza su Eumenidi e sulla conclusione della saga (Pasolini, con l’Orestiade e con Pilade).
È difficile trovare il proprio posto a tavola, di fronte a una tradizione così ricca e così incisiva: Sartre, Yourcenar, Eliot sono solo alcuni dei ‘nomi macigno’ con cui è inevitabile fare i conti quando ci si avvicina a Oreste e a Elettra. L’Orestea di Anagoor – quattro ore che attraversano, anche dal punto di vista drammaturgico, l’originale eschileo e si interrogano sulla sua ricezione – è dunque un’impresa quanto mai coraggiosa. E coraggiosa anche la scelta del direttore Antonio Latella (che con la tragedia greca ha avuto di recente il suo da fare in Santa Estasi) di collocare l’appuntamento in apertura della Biennale Teatro, quasi in posizione di manifesto. Un’investitura consacrata dalla consegna del Leone d’Argento il giorno prima del debutto, che non pare affatto priva di criterio per chi conosca il percorso e l’operato della compagnia. Fin degli esordi Anagoor ha manifestato una singolare capacità di pensare su larga scala il proprio progetto artistico, dimostrandosi del tutto impermeabile a quello schiacciamento produttivo e culturale che finisce per dettare una dimensione ‘ristretta’ nei lavori di molti coetanei.
Una trilogia in accelerazione
L’Orestea di Eschilo è l’unico esempio in nostro possesso di ‘trilogia legata’: tre tragedie intimamente interconnesse, che restituiscono solo nel loro insieme l’intero arco della vicenda e una compiuta unità di senso. Il materiale è talmente esteso e denso da indurre molti registi e autori a mettere in atto un procedimento analogo allo zoom fotografico, prendendo in esame solo un particolare episodio della saga; e proprio in quella scelta si annida spesso la chiave interpretativa dell’intera operazione. Anagoor, anche su questo, non si concede sconti. Fin dal sottotitolo dello spettacolo (Agamennone, Schiavi, Conversio), la compagnia si mostra evidentemente interessata all’arco trilogico dell’originale, e persino agli elementi compositivi strutturali della tragedia, che compaiono proiettati come titoli su uno schermo, scandendo la narrazione: “parodo”, “stasimo”, “episodio”.
La prima e più evidente marcatura autoriale del regista Simone Derai è proprio l’articolazione disomogenea dello spettacolo in relazione ai diversi episodi: al solo Agamennone viene dedicata più di metà della durata complessiva, a Schiavi circa un’ora, e a Conversio solo trenta minuti. Si tratta, nella visione registica, della trasposizione spettacolare del ritmo interno della drammaturgia eschilea, costruita su una progressiva accelerazione: quasi che il carattere arcaico e monumentale della prima tragedia venisse pian piano decostruito e alleggerito. E così alla fissità ieratica che contraddistingue tutta la prima parte (con pose protratte e statuarie) subentra nella seconda una crescente energia cinetica, un vero e proprio vortice di movimento che coinvolge tutti gli attori in scena, e sgombra via via il campo dalla presenza della parola.
Il processo di costruzione della drammaturgia è per certi versi analogo a quello di alcuni precedenti lavori: all’originale greco (qui nella traduzione curata da Simone Derai e Patrizia Vercesi) vengono accostati testi eterogenei, non di rado di particolare densità filosofica (da Severino a Broch, passando per Giacomo Leopardi). La maggior parte di questi riferimenti sono restituiti da un corifeo-guida (Marco Menegoni), che parla al microfono e accompagna gli spettatori dentro e fuori dalla vicenda e dal tempo. L’idea è di rendere esplicito attraverso l’orizzonte di pensiero suggerito dagli autori moderni e contemporanei, il filtro interpretativo con cui si intende guardare all’ originale; e, così facendo, far risuonare le parole antiche in modo più potente e connotato. La lettera di Eschilo resta presente e riconoscibile in Agamennone, viva nello scambio tra Oreste ed Elettra in Schiavi, per eclissarsi invece quasi completamente in Conversio; eppure proprio nell’ultimo e brevissimo capitolo della saga risiede, come vedremo, il cuore dell’intero lavoro.
Lo sguardo di Anagoor verso l’Orestea si mostra consapevole del Novecento, e allo stesso tempo capace di mettere da parte la sua eredità critica per tentare una via personale. Le relazioni tra i personaggi evidenziano le tensioni generazionali senza però esplorarle necessariamente in chiave analitica: Elettra (la brava Leda Kreider) è fragile ed esangue come l’ha immaginata molta letteratura d’autore, ma non mostra nessuna delle nevrosi ossessive rappresentate da von Hofmannsthal e O’Neill; un Egisto giovanissimo (Benedetto Patruno) si accompagna a una Clitemnestra materna (Monica Tonietto) suggerendo ma non esplicitando possibili implicazioni edipiche del rapporto. Allo stesso modo, la ricerca di Pasolini sull’Orestea sembra aver influenzato Simone Derai più nella dimensione estetica che nell’impalcatura ideologica: portano il segno del film Medea i costumi arcaici, non privi di richiami al medio-oriente, così come il fermo immagine di Cassandra (Gayané Movsisyan), e il suo sguardo fermo sotto il velo.
La rilettura di Anagoor non è dunque né squisitamente politica, né psicologica: è piuttosto la dimensione sacrale e antropologica a essere indagata tanto dal punto di vista testuale quanto da quello visivo. Una cerva bianca, con il ventre aperto per il sacrificio, campeggia a lungo al centro del palco come alter ego di Ifigenia: l’atto violento che costituisce l’antefatto dell’intera saga trova così una testimonianza visibile, e non può essere dimenticato. La violenza si rivela dunque il più antico motore dell’azione umana: l’uomo è violento con i suoi famigliari (ogni membro della famiglia degli Atridi è allo stesso tempo vittima e carnefice), con interi popoli (lo ricordano le parole della profuga Cassandra, pronunciate in armeno), persino con l’ambiente che lo circonda (immagini di greggi vengono proiettate sullo sfondo, come a sottolineare il rapporto di potere esercitato dall’uomo verso gli animali). Protagonista dell’intero spettacolo è dunque una violenza o-scena: proprio come accadeva nell’antichità viene esclusa formalmente dalla rappresentazione, e proprio per questo si rivela ancora più radicalmente presente.
Memorie personali, memorie collettive
“Il morto è potente nella sua notte”. Il prologo dello spettacolo è tutto dedicato al rapporto dei vivi con i morti: Marco Menegoni – come un Virgilio precipitato in Orestea direttamente dallo spettacolo Virgilio Brucia (2014) – ci guida così in uno dei temi chiave dello spettacolo. I defunti che ancora abitano le case, che restano misteriosamente impigliati negli oggetti che hanno toccato; e ancora la difficoltà per chi resta di tenere inalterato il ricordo, e poi la necessità di dimenticare per continuare a vivere.
Il cortocircuito tra memoria privata e memoria collettiva si irradia sull’intera Orestea di Anagoor e ne costituisce il più profondo nucleo di senso. Elettra e Oreste cercano di fare i conti con la morte, e con la necessità di dover sopravvivere alle persone amate: attraverso di loro, Eschilo insegna ai suoi concittadini la perdita e la memoria. Allo stesso tempo noi, in platea, siamo chiamati e a ragionare sulla più ampia memoria della civiltà occidentale, sui suoi violenti ingranaggi, sull’eredità di un sapere che si rivela troppo spesso incapace di cambiare il presente. L’intero linguaggio visivo e verbale dello spettacolo è dunque costruito tutto sul contrasto tra arcaico e contemporaneo: mentre si parla della sconfitta di Troia compare sul video una cartina dell’Europa; ai canti corali arcani degli attori in scena si accompagnano le sonorità elettroniche di Mauro Martinuz; alle anfore si accostano i microfoni e le casse.
Il tribunale delle Eumenidi, che la drammaturgia dello spettacolo apparentemente sceglie di elidere, si rivela invece il tribunale del tempo, davanti al quale non possiamo che risultare condannati: in una video-testimonianza le statue greche del museo di Olimpia vengono passate allo scanner e restituite in 3D, mentre visitatori in T-shirt calpestano con leggerezza i residui del passato. Un rapporto equilibrato con il passato e con la morte, capace di tenersi lontano dagli estremi dell’ossessione e della rimozione, è considerato indice di sanità in un individuo. Allo stesso modo – sembra suggerire questa Orestea – va guardato il rapporto della società con la propria tradizione: tenere il proprio passato in una teca, senza farlo dialogare con il presente, è inutile quanto dimenticarlo del tutto.
Maddalena Giovannelli
*alcune delle osservazioni presenti in questo articolo si sono nutrite di un’intervista con Simone Derai (Venezia, 21 luglio 2018)
Orestea –Agamennone, Schiavi, Conversio
sull’Orestea di Eschilo
regia Simone Derai
drammaturgia Simone Derai, Patrizia Vercesi
con Marco Ciccullo, Sebastiano Filocamo, Leda Kreider, Marco Menegoni, Gayané Movsisyan, Giorgia Ohanesian Nardin, Eliza G. Oanca, Benedetto Patruno, Piero Ramella, Massimo Simonetto, Valerio Sirnå, Monica Tonietto, Annapaola Trevenzuoli
traduzione dal greco Patrizia Vercesi, Simone Derai
musica e sound design Mauro Martinuz
scene e costumi Simone Derai
video Simone Derai, Giulio Favotto
light design Fabio Sajiz
produzione Anagoor 2018
con il sostegno di Fondation d’entreprise Hermès nell’ambito del programma New Settings
coproduzione Centrale Fies, Teatro Metastasio di Prato, TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Stabile del Veneto
Visto alla Biennale di Venezia_20 luglio 2018