In Italia, dai primi di giugno 2021, è successo qualcosa di incredibile. Qualcosa che raramente si era visto. C’è stata una proposta teatrale, coreografica e performativa quasi senza precedenti. È come se qualcuno avesse spalancato un portone e una folla di artiste e artisti abbia invaso l’estate. Teatri stabili, teatri off, festival antichi e appena nati hanno offerto i loro spazi e siamo tornati a sederci fra platee e muretti all’aria aperta, oppure a seguire performer fra le strade delle città. Questa convergenza straordinaria, però, non è il frutto di un appuntamento fra le varie realtà e enti organizzatori, né di un processo previsto e studiato per l’occasione. Naturalmente sappiamo che le riaperture post-zona rossa o arancione, il conseguente slittamento delle stagioni teatrali, le strategie legate a recuperi e ristori economici – e pure un pizzico di entusiasmo e di fiducia – rappresentano i principali motivi del felice ingorgo. Il fenomeno, tuttavia, proprio per la sua varietà e per il suo disordine, risulta quanto mai interessante per fare esperienza concreta di cosa resti del teatro dopo la pandemia, in termini di pubblici, dinamiche artistiche, programmazioni e dialogo con la cittadinanza.

Proprio quest’ultimo punto, ora, ci pare di estrema importanza e delicato in termini di lungimiranza. Forse perché i pubblici, le dinamiche artistiche e le programmazioni, sebbene un po’ ridotti, indeboliti e riadattati, sono grosso modo quelli che avevamo lasciato la scorsa estate. Più interessante, invece, andare a capire come si ripresentano alle realtà urbane i teatri e i festival, come rispondono ai timori, alle ansie, e in generale all’esperienza di clausura, di tragedia e tristezza che ha caratterizzato il nostro vivere insieme dell’ultimo anno e mezzo. Soprattutto in un momento in cui invece, per pigrizia o peggio per paura, quasi si trattasse di un tabù, ciò che è successo vuole essere archiviato, taciuto, non riconosciuto o (se possibile) dimenticato. Il che non vuol dire affatto che le sale teatrali debbano diventare degli studi di psicoanalisi. Né tantomeno che realtà affermate e con una direzione ben precisa debbano snaturarsi e adattarsi alla situazione. 

La parola risolutrice a cui tutti stiamo pensando, ma che siamo troppo stanchi di sentire, è: resilienza. Ci sono realtà teatrali che, invece di usarla a sproposito, ne mettono in pratica il senso con grande efficacia. E cioè riescono a dialogare meglio con la cittadinanza e gli spazi urbani, dando nuove chance per ripensarsi in dialogo le con pratiche artistiche e per guardare ombre e luci della realtà con occhi diversi, meno sfuggenti e più liberi da stereotipi e ipocrisie. 

Prometheus / Agrupación Señor Serrano / ®Leafhopper

Non a caso ci viene in mente Pergine Festival. Che, proprio per il suo tipico coinvolgimento della città e del territorio, quest’anno ha dovuto compiere uno sforzo in più. Basti pensare alle restrizioni e alle nuove norme di sicurezza, e alle relative interpretazioni degli enti locali: la provincia di Trento, nel giro di una settimana, ha imposto il green pass agli spettatori, salvo poi ritirare l’ordinanza durante i primi giorni della manifestazione. Riadattare alla nuova situazione un festival che fa largo uso – accanto agli spazi convenzionali del teatro – di spazi urbani, pare un’impresa ardua e per alcuni da sconsigliare. Eppure il giovane team a supporto della direttrice artistica Carla Esperanza Tommasini ce l’ha fatta. Così com’è riuscito, soprattutto, a creare un ambiente diffuso e accogliente, libero da snobismi e profondamente originale, rispettoso delle realtà locali ma aperto a presenze e sguardi giovani e di non addetti ai lavori. Soprattutto, senza confini: fra teatro e città, fra città e natura, fra artiste e cittadini, nasce e cresce un dialogo su ciò che è stato e ciò che sarà. Un dialogo che neanche un temporale estivo riesce a silenziare. Un dialogo che abbraccia pubblici sempre più particolari: è il caso dello spettacolo Prometeo di Agrupación Señor Serrano, riservato esclusivamente a un pubblico infantile.

Quest’attenzione alla cittadinanza fa sì che alcune installazioni o progetti meno complessi risultino spesso più efficaci degli spettacoli veri e propri: è il caso del colorato Labirinto creato con materiali di scarto dall’artista trentino Franz Avancini nella piazza centrale di Pergine, oppure di Incontrarsi senza scontrarsi firmato da Cecilia Tommasi e Veronika Vascotto, una serie di geometrie e piccoli percorsi lineari fissati al suolo che esplorano le nuove interazioni sociali e corporee nella pandemia ridisegnando gli spazi urbani. Oppure ancora la mostra fotografica Saluti da… di Marilyne Grimmer, una divertente riflessione sulla spazialità e sui luoghi della mente da ammirare fra le vetrine o sulle facciate della città.

Queste azioni, più o meno piccole, unite a chiacchiere spontanee e ad attese fra sdraio e giardini, avverano quel «grande abbraccio collettivo» che campeggia nell’introduzione al programma del festival. E sopperiscono alle perplessità che potrebbero sorgere dinanzi ad alcuni spettacoli che, da un punto di vista drammaturgico e contenutistico sembrano presentare qualche ingenuità di troppo, se non qualche caduta autoreferenziale. Non mancano tuttavia, anche in presenza di queste carenze, spunti formali interessanti e linguaggi originali: la performance partecipata Architettura della disobbedienza di Associazione Craft merita una menzione da questo punto di vista, poiché riesce a sfruttare i pur esigui spazi di un ex rimessa grazie a scenografie originali e significative. 

Martina Badiluzzi / Rumori / ph Claudia Pajewski

Un’artista che ha suscitato particolare interesse nei primi giorni di Pergine festival – accanto a Leonardo Delogu e al “walkabaout” con il quale apre le proprie ricerche al pubblico, presentandone l’oggetto misterioso e affascinante, un “buco” urbano infestato di piante nel mezzo della città – è Martina Badiluzzi. Dopo la vittoria al concorso registi under35 alla Biennale Teatro 2019 e il grande debutto di The making of Anastasia del 2020, si presenta sul palco del Teatro Don Bosco (su cui neanche un giorno prima si erano ammirati i tableaux vivants di Stalker teatro) con Rumori, un lavoro derivato da una serie di video-radiodrammi realizzati durante il lockdown. In una scena molto scura, invasa da aste, fari e microfoni, la regista è in scena come performer-vocalist di fronte a Samuele Cestola, musicista circondato da tastiere e sintetizzatori.

La quotidianità del lockdown, la vita casalinga e una nuova attenzione per i condomini romani sono gli ingredienti semplici di una drammaturgia scandita in due momenti principali: in uno, una serie di episodi a catena portano all’incidentale e tragicomica morte di un’anziana condomina; nell’altro, con un tocco di surrealismo la protagonista supera le insidie di una notte oltre il coprifuoco grazie a inattesi poteri elettrici. Se l’argomento dà un orizzonte di senso in cui il pubblico si ritrova con facilità, anche i contenuti si sciolgono nella sonorità della performance, che funge da paesaggio immersivo: la voce di Badiluzzi viene distorta, raddoppiata, soffocata, abbassata di tono, perde insomma quella soggettività (e di riflesso anche quell’antropocentrismo) che la pandemia ha profondamente messo in crisi. E non c’è traccia di lamentazione o retorica. Ne è prova la sfera disco, che cala a moltiplicare le luci in scena e ad esaltare la musica elettronica e i ritmi dance e confusionari di Cestola.

I “rumori” continuano per le strade di Pergine: sono quelli del pubblico, delle loro chiacchiere e dei loro pensieri. Piccoli sguardi, cenni e persino scambi di respiro fra persone, sono segnali di qualcosa che sta avvenendo e di cui festival come Pergine si fanno potenti animatori: un ritorno più consapevole e più vivo a un rapporto con la città, con i suoi spazi e con i suoi abitanti.

Riccardo Corcione