In principio era il genius loci, l’anima dei luoghi, lo spirito dello spazio. Fuor di metafora: l’insieme delle caratteristiche socio-culturali, architettoniche, di linguaggio, di abitudini che caratterizzano un luogo, un ambiente, una città. Un termine quindi trasversale, che riguarda le caratteristiche proprie di un ambiente intrecciate con chi lo vive.
Lo sa bene Carla Esperanza Tommasini, nuova direttrice artistica di Pergine Festival (ex Pergine Spettacolo Aperto), la quale, pur essendo in questa 43esima edizione alla sua prima guida nel longevo festival trentino non è nuova né al teatro né allo spirito del luogo. La collaborazione con il festival risale infatti a diversi anni fa, ed è proprio a lei che si deve ’l’invenzione’ del bando “OPEN /// CREAZIONE CONTEMPORANEA” rivolto ad artisti (singoli, compagnie o collettivi) che operano nell’ambito della creazione contemporanea. La finalità è sostenere la produzione di progetti che si sviluppino in dialogo con gli spazi urbani e gli abitanti della città di Pergine Valsugana, con l’intento di favorire la crescita artistica e la visibilità a livello regionale e nazionale. Non stupisce quindi che l’intero Pergine Festival 2018 (dal 6 al 15 luglio) sia dedicato al rapporto uomo-ambiente, e in particolare alla relazione abitante-città: la nuova linea della manifestazione sembra infatti, a partire dal cambio di nome, voler accentuare il profondo legame con il territorio che la ospita e l’ha generata. Una decisione pienamente comprensibile, atta a rivendicare un’appartenenza non solo geografica ma anche di senso – concetto che è bene ribadire viste le profonde modifiche a cui il festival e è andato incontro nel corso degli anni – ma che, allo stesso tempo rischia di avere anche qualche effetto collaterale, se non ben sorvegliata.  Il pericolo è infatti quello di operare scelte artistiche che, puntando sul “site specific” o sullo “spettacolo partecipativo”, riescano a parlare solo a una cerchia ristretta di persone.

In questa casistica rientra in un certo senso proprio lo spettacolo di apertura della programmazione 2018, A manual on work and happiness del collettivo portoghese mala voadora guidato dal regista Jorge Andrade. Un progetto, almeno sulla carta, di grande valore artistico e sociale: A manual on work and happines nasce infatti dalla collaborazione tra Artemrede (Portugallo), Pergine Spettacolo Aperto (Italia), L’arboreto di Mondaino -Teatro Dimora (Italia), Teatro Municipale e Regionale di Patrasso (Grecia) ed è sostenuto dal Programma Europa Creativa dell’Unione Europea. Dal 2017 a oggi sono state realizzate una serie di azioni: un seminario internazionale, una residenza creativa di scrittura drammaturgica, quattro momenti formativi per operatori culturali, il tutto per arrivare all’elaborazione di un “manuale” dello spettacolo. L’operazione prevede sul palco una ventina di non-attori, impegnati nella realizzazione di una drammaturgia scenica di semplici azioni, infinitamente replicabile e al tempo stessa unica ogni volta, perché realizzata ad hoc con volontari del luogo. Così è accaduto alla prima in Grecia nel 2017, così a Pergine a giugno-luglio 2018: 17 volontari, “lavoratori e lavoratrici” del territorio, sono stati guidati in un lungo percorso di lettura e studio del manuale per ricomporre in scena la drammaturgia ideata dallo spagnolo Pablo Gisbert. L’agenda del periodo di “residenza” prevedeva, oltre alle prove necessarie, la lettura in comune di alcuni testi che descrivono diverse forme di futuro distopico, dando a ogni partecipante la possibilità di scegliere il testo preferito da declamare nel corso dello spettacolo.

In pratica, sulla scena, i 17 si muovono, eseguono semplici ordini guidati da una voce che, scandendo ritmicamente il tempo, guida le azioni dei performer in una sorta di danza rituale fine a se stessa, mentre sullo sfondo troneggia in enormi lettere cartonate la parola “work”, vera protagonista dello spettacolo. Man mano che i minuti passano però, il lavoro, inteso come concetto, scompare progressivamente dall’orizzonte di senso dello spettacolo e l’attenzione si focalizza sempre più verso quegli elementi percepiti come “opposti” al lavoro stesso. Le lettere cartonate, pur continuando imperterrite a veicolare “work”, si vestono di immagini naturalistiche: paesaggi, animali, suggestioni di luoghi lontani o vicinissimi, universi sempre afferenti al concetto di ozio, svago, libertà contrapposta alla fatica della propria mansione. A esplicitare questo slittamento è l’attrice professionista Clara Setti, anch’essa scelta tra gli abitanti del territorio, che attraverso due lunghi monologhi arringa i presenti: “Lavoratrici e lavoratori” sono invitati a riflettere sul senso del tempo, sull’illusione di poter trovare la felicità nella propria professione, sul buon o cattivo uso che si può fare dell’impegno e della vita. Una perorazione atta a denunciare da una parte “l’umano destino” di perenne ricerca di ciò che ci rende felici, dall’altro l’effettiva impossibilità di raggiungere un momento di completezza e serenità personale in un mondo popolato dal dolore.

A manual on work and happiness è una prova non facile in termini puramente attoriali, né risulta agevolata sul versante testuale, in cui una certa tendenza alla retorica è sempre in agguato. Ma la questione più spinosa del lavoro riguarda proprio la mancanza di riflessione scenica riguardo le professionalità di chi realizza in prima persona lo spettacolo. Che nel corso del processo di creazione e mise en espace del lavoro ci siano stati dibattiti generatori di dialogo e scontro, che le riflessioni siano state in grado di toccare anche aspetti estremamente personali di ognuno dei 17 volontari, che l’impegno speso da parte di chi ha già una professione lontana dal mondo dell’arte nel creare un atto “poco utile” come quello spettacolare sia già un gesto con un valore politico/civile lo si può intuire, ma non viene mai esplicitato. A un pubblico che non abbia avuto modo e tempo di informarsi in modo approfondito riguardo la genesi dell’operazione, questa appare come una strana combinazione di elementi eterogenei e, soprattutto, non fa emergere la necessità intrinseca di lavorare con abitanti del territorio. Il percorso di ricerca collettivo resta opaco, messo in ombra da una struttura drammaturgica che invece di farsi piattaforma su cui edificare nuovo senso, si limita a ingabbiare l’esistente, annullando la necessità della dimensione partecipativa, per riflettere sul tema.

Completamente diversa la resa del progetto STANZE di Circolo Bergman. Il collettivo milanese arriva con questa produzione al terzo anno di collaborazione con il festival di Pergine e, dopo le “visite guidate performative” alle Ex Lanerie Dalsasso e all’Ex Ospedale Psichiatrico delle scorse edizioni, rivolge la sua attenzione a un luogo privato: Palazzo Crivelli. Come uso della compagnia, l’espediente tecnico che permette di sviluppare il percorso-spettacolo sono le cuffie wireless messe a disposizione dei partecipanti, che si trovano così al tempo stesso isolati e parti integranti di un gruppo di spettatori, pienamente consapevoli di vivere un’esperienza comune. L’espediente narrativo è altrettanto semplice ed efficace: come adolescenti alla ricerca di avventura, gli spettatori sono accompagnati in un cammino che, stanza dopo stanza, si apre alla scoperta di storie, oggetti, ricordi, appartenenti al conte Guido Crivelli, ultimo abitante dell’edificio, scomparso ormai alcuni anni orsono – benché sempre vivo nella memoria dei perginesi. L’itinerario che si svolge interamente nell’antico palazzo nobiliare nel cuore della cittadina di Pergine, ripercorre gli spazi e le loro destinazioni d’uso, esattamente come in una “normale” visita guidata, ma rievocando al contempo le emozioni di chi questi spazi li ha riempiti di vita quotidiana.

Il bel talento di Circolo Bergman e della scrittura di Paolo Giorgio è quello di riuscire a lavorare su due piani paralleli: il materiale prettamente storico e una nuova tessitura tutta emotiva. Così le pareti ricoperte di carta da parati si animano, diventando pelle viva sotto le mani di chi accoglie l’invito a toccarle, i quaderni e i libri vengono aperti svelando frammenti di passato che sono al tempo stesso pubblico e privato; viene mostrata una vecchia cuccia ricoperta di polvere, ragnatele e coccarde, che svela l’intimità di Guido Crivelli con l’amato cane bracco, gioia e orgoglio dell’anziano conte. La Storia si incontra con la storia e l’oggetto fisico viene costantemente accompagnato da un’idea simbolica, lasciando alla sensibilità dello spettatore la scelta di rivolgere l’attenzione maggiormente all’uno o all’altro aspetto, o, ancor meglio, offrendo la possibilità di riempire la distanza che separa i due piani con proprie riflessioni. Gran parte della riuscita della performance deriva dalla cura con cui i Bergman impiegano alcuni elementi tecnici propri del linguaggio della compagnia: dagli artifici fonici elaborati da Marcello Gori, che riescono a raggiungere livelli di grande suggestione (su tutti i passi dei ragazzini nella tromba delle scale) alle luci di Sarah Chiarcos. La presenza fantasmatica di Sarah Atman chiude il cerchio guidando lo sguardo dello spettatore e popolando lo spazio fisico di vita e corporeità. Uniche assenti sono le percezioni olfattive, che sarebbero state al contrario interessanti da indagare, soprattutto in un luogo dove si alternano senza soluzione di continuità l’odore di umidità e terra e quello stantio di locali polverosi in cui per molto tempo non è circolata aria fresca. Il lavoro si chiude con una fotografia di gruppo, il tentativo di testimoniare, attraverso un’azione concreta, la permanenza nello spazio e nel tempo: la polaroid che ritrae gli spettatori, affissa al muro del salone centrale, resta come memento per la replica successiva, denunciando di fatto lo strettissimo legame che si stringe tra l’uomo e i luoghi che abita.

In STANZE la necessità di lavorare in stretta relazione con lo spirito di un luogo è totalmente esplicita: le intenzioni di Circolo Bergman superano la semplice narrazione della realtà fisica, andando ad aprire strade di dialogo con la comunità che effettivamente possiede e vive gli spazi nei quali si muove lo spettacolo. È indubbio, per stessa ammissione della compagnia, che molti spettatori abbiano deciso di assistervi solo per vedere più da vicino un palazzo storico ormai chiuso al pubblico da molti anni, ma è altrettanto vero che tale effetto ha ricadute sul reale, in termini di riflessioni politiche e amministrative riguardo la gestione dei beni pubblici. La più “semplice” delle visite guidate si trasforma così in un atto di presa di coscienza civile in grado di affascinare tutti ma che affonda il coltello in profondità proprio in chi pensava di non aver più nulla da scoprire.

Sembra che Circolo Bergman rimarrà, anche sotto la nuova direzione, tra gli artisti associati di Pergine Festival per i prossimi tre anni e la compagnia ha dichiarato l’intenzione di continuare a percorrere una modalità di linguaggio legata al luogo, indagando altri edifici e realtà storiche del territorio. Se il rischio più evidente di questa scelta è quello di cadere in una semplice modularità operativa, applicata senza grandi variazioni ai nuovi luoghi, la necessità di rinnovare il proprio linguaggio potrebbe portare invece il collettivo a trovare soluzioni narrative sempre più efficaci, costruendo un legame ancora più intimo non solo con gli spazi e gli oggetti fisici ma anche con la popolazione locale. Al momento le premesse lasciano ben sperare.

Chiara Marsilli

A MANUAL ON WORK AND HAPPINESS
mala voadora con la comunità di Pergine
ideazione del manuale e regia Jorge Andrade
aiuto regia Maria Jorge
testo Pablo Gisbert
scenografia e oggetti di scena José Capela
elaborazione delle immagini António MV
disegno luci Rui Monteiro
in scena Clara Setti e un gruppo di partecipanti di Pergine e dintorni: Serena Beber, Andrea Bombasaro, Nicole Carpentari, Clarissa D’Alberto, Francesca Dellai, Donatella Di Giorgio, Giovanni Di Bernardo, Silvia Gadda, Alessandro Marcotullio, Giuseppe Mattivi, Laura Mosna, Masha Mottes, Fernanda Piva, Pierluigi Sartori, Saverio Sculli, Monica Vianello, Paulo Vasconcelos

STANZE
Circolo Bergman
concept e testi: Circolo Bergman
suono e musica originale Marcello Gori
spazio e luce Sarah Chiarcos
regia Paolo Giorgio
in scena Sarah Ātman
coproduzione Casa Degli Alfieri | Pergine Spettacolo Aperto

Visti nell’ambito di Pergine Festival_6-15 luglio 2018