I materiali scelti da Piersandra Di Matteo per raccontare il suo lavoro come dramaturg sono i sei frammenti che compaiono anche nel programma francese della Resurrection, la celebre seconda sinfonia di Gustav Mahler, eseguita nell’ambito del Festival Aix-En-Provence 2022 allo Stadium de Vitrolles dall’Orchestra di Parigi guidata da Esa-Pekka Salonen. Per l’occasione, Di Matteo ha lavorato con Romeo Castellucci a una performance che dialogasse visivamente con la musica. Questi sei frammenti danno un’idea, ci racconta, delle costellazioni attivate nei progetti di Castellucci, dove ciò che normalmente si trova separato convive alla luce di un’idea artistica: da materiali filologici sull’opera di Mahler a fonti religiose e iconografiche, da testimonianze di mediche legali e antropologhe che lavorano nel recupero di cadaveri a rilievi sul terreno che circonda lo Stadium. Interamente filmato da ARTE, Resurrection abbina la sinfonia a un’azione professionale di squadra: l’estrazione di una serie di corpi dalla terra umida della Provenza marsigliese, seguita dalle prime operazioni di identificazione e dal trasporto tramite furgoni.

Intervallando la nostra conversazione, i sei estratti si accordano con la poliedricità delle funzioni drammaturgiche secondo Piersandra Di Matteo, la quale, oltre ad aver collaborato con altre artiste come Lola Arias e Tania Bruguera, ha alle spalle un percorso di ricerca in ambito performativo (oggi insegna Curatela delle Arti Performative all’Università Iuav di Venezia, primo corso curriculare italiano su questa materia) e ha curato progetti come E la volpe disse al corvo e Atlas of Transitions per ERT a Bologna. Dal 2021 dirige il festival Short Theatre a Roma.

Resurrection, regia di Romeo Castellucci, Festival d’Aix-en-Provence 2022, foto di Monika Rittershaus

1. “Risorgerai, sì, risorgerai”. E ora appare Iddio nella Sua gloria! Una luce meravigliosa, soave, penetra fino al nostro cuore – tutto è pace e beatitudine! E vedi: non c’è giudizio, non c’è peccatore, né giusto, né grande, né piccolo – non c’è punizione né premio! Una sensazione irresistibile d’amore pervade e illumina tutto il nostro essere di una consapevole beatitudine.
(Gustav Mahler, Programma della 2° Sinfonia, Dresda 1901)

Abbiamo cominciato questo focus parlando di dramaturg-fantasma, citando Marianne Van Kerkhoven e il recente dossier The Dramaturg, Today, da te curato sulla rivista Sound Stage Screen. In Italia questo carattere fantasmagorico pare ancor più marcato, forse per un contesto troppo affezionato alle sue tradizioni e alle sue strutture. In quanto prima dramaturg italiana di questo focus Calapranzi, la domanda, per quanto banale, è quasi doverosa: come si fa a diventare dramaturg?

Provo a risponderti partendo da me. Attraverso una relazione stretta con gli/le artisti/e, una conoscenza storica e teorica del teatro, ma anche un’applicazione su saperi operativi, consapevolezze fattive, cosa il teatro fa. Nel rapporto peculiare che mi lega a Romeo Castellucci non si tratta di mettere in campo solo capacità letterarie ma di convocare una serie eteroclita di saperi, una disponibilità a rinegoziarli ogni volta in funzione delle idee, che nel suo caso si inscrivono in concezione del teatro come arte delle arti. Rispetto alla mia formazione, sono laureata in Lettere, con una passione particolare per la filologia romanza che ha nutrito la mia immaginazione linguistica, ho poi conseguito un Dottorato in Studi teatrali e cinematografici al Dipartimento delle Arti di Bologna, seguito da post-doc e assegni di ricerca. Indipendentemente dal percorso accademico, lo studio è per me quotidiano, un esercizio continuo di riposizionamento. Ma fin da piccola ho praticato teatro e soprattutto danza (ho iniziato a quattro anni!): l’esercizio dei linguaggi del corpo e della voce è stato una costante almeno fino ai ventiquattro anni.
Altro aspetto importante: mi sono nutrita di una visione spasmodica di spettacoli, esperienze attraverso le quali ho sperimentato – per via negativa – cosa non mi interessava del teatro. Gli anni universitari, a Bologna, sono stati folgoranti per alcuni incontri che hanno forgiato una idea di teatri possibili, penso ai festival curati da Silvia Fanti/Xing e a tutta una scena internazionale di sperimentatori nel campo della performance, pronti a decostruire e praticare forature nella macchina della rappresentazione. Sicuramente è stato folgorante vedere al Teatro Duse di Bologna il Giulio Cesare di Romeo. In definitiva per me non c’è separazione fra arte e conoscenze, fra pratiche e teorie ma un osmotico annodamento.
Ho conosciuto Romeo Castellucci durante la sua Biennale del 2005, facevo parte dei giovani critici. In quell’occasione si è innescato un dialogo profondo, in particolare intorno a lavori misconosciuti dalla critica di allora, come Invisible dances di Frank Bock e Simon Vincenzi e The Good Samaritans del regista americano Richard Maxwell. Abbiamo poi iniziato a dialogare su Dante e su un dispositivo scenico che potesse avere a che fare con un’opera imprendibile come la Commedia. E proprio con la trilogia Inferno, Purgatorio e Paradiso, portato in scena da Romeo quando era artista associato al festival d’Avignone del 2008, ha preso avvio un rapporto di collaborazione, che si è consolidato nel contesto operistico. Fra il 2009 e il 2010 abbiamo cominciato a lavorare sul Parsifal di Wagner per la sua prima regia lirica del 2011 a La Monnaie di Bruxelles.

Resurrection, regia di Romeo Castellucci, Festival d’Aix-en-Provence 2022, foto di Monika Rittershaus

2. Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità.
(Paolo di Tarso, 1Corinzi 15:51-53)

Da spettatori delle creazioni di Castellucci, saremmo portati a pensare che sia difficile sostenere un dialogo con un artista dalla personalità tanto grande, votato a una continua sfida alla rappresentazione. Quanto è complesso? In uno scritto citato nell’editoriale d’apertura del nostro focus, Kerkhoven afferma che un dramaturg è un “quasi-artista”. C’è uno spazio artistico che da dramaturg devi negoziare in questa relazione con il regista?

Non sono un’artista, non farò mai una regia. Mi sento centrata nel ruolo che ricopro. Il rapporto con Romeo col tempo si è trasformato, ma dalla prima ora è stato un dialogo fatto di sintonizzazioni: era molto chiaro a entrambi che l’oggetto della nostra relazione fosse esterno a noi, ovvero la creazione. Quando l’ho incontrato, avevo studiato il suo lavoro, avevo una conoscenza attenta delle opere di Epopea della polvere (1992-1999) e della Tragedia Endogonidia (2001-2004). Non mi sarei mai aspettata di poter lavorare con lui, ero molto giovane! Ma è stato subito chiaro che quel bagaglio accumulato dovesse agire di latenza, la mia figura richiedeva e richiede una forma di veglia, un’esercitazione selettiva dello sguardo che è attenzione al presente della scrittura scenica e dei suoi elementi, senza congetture non iscritte nei corpi, uno stato di allerta non sedotto da facili intellettualismi. Non è questione di magistero intellettuale, quello che il dramaturg fa è un operare come “figura di inciampo”: nel lavoro usiamo spesso l’espressione “avvocato del diavolo”. La relazione con Romeo è profondamente mentale ma già da sempre informata dalla coscienza del fare. È un prefigurare che incorpora le possibilità dell’accadere, tanto più quando prende di mira l’irrappresentabile. Sembra un paradosso, ma è quello che accade.
Dentro questo assetto esistono straordinarie possibilità immaginative: senz’altro nel tempo siamo diventati veloci nell’individuare insieme i grumi non disbrogliati, i punti di criticità, i tempi che non collimano, la messa a fuoco del cardine. È una contesa con gli elementi della creazione che procura gioia perché non fa sconti, continuamente autocritica, severa, che allo stesso tempo chiede accoglienza. Il lavoro del dramaturg, del resto, non può che essere sempre situato, ogni volta si riplasma per nuove sintonizzazioni somatiche e protocolli d’incontro. Sarebbe ingenuo, persino fuorviante, far valere le istanze specifiche del lavoro di Romeo per una regista come Lola Arias, la cui concezione di teatro è per certi versi opposta. Penso d’altra parte che non si possa lavorare con chiunque. Almeno io non potrei.

Orphée et Eurydice, regia di Romeo Castellucci, La Monnaie 2014, foto di Bernd Uhlig

3. Tra il 1499 e il 1502, Luca Signorelli e i suoi allievi realizzano, per la Cappella di San Brizio (Cappella Nova) del Duomo di Orvieto, la Resurrezione della carne, un affresco del ciclo delle Storie degli ultimi giorni.

Hai parlato di scrittura scenica, una pratica molto particolare perché non ha a che vedere con la scrittura drammaturgica del teatro di parola, soprattutto nel caso del teatro di Castellucci. Infatti fai riferimento all’immediatezza con cui si passa dal pensiero alla pratica, alla visione. Ci racconti meglio questa tua pratica legata all’ekphrasis? Dove si colloca il tuo lavoro all’interno dei processi artistici?

In ambito operistico, ad esempio, mi occupo dello studio dettagliato di libretto e partitura musicale. Sono presente dalla formulazione delle prime idee. E poi seguo minuziosamente la scrittura scenica: Romeo, soprattutto negli anni recenti, scrive una partitura, scena per scena, fondata essenzialmente sull’ascolto. È la prefigurazione di ciò che accadrà sul palcoscenico, che contempla movimenti tecnici e dispositivi: una scrittura sorvegliata fino al midollo. La mia funzione “critica” resta attiva anche durante le prove. Non è secondario essere presente in quella fase, la vera partita si gioca lì. La questione dell’ekphrasis è calzante: quando Romeo lancia un’idea, si tratta di visualizzarne l’accadere, ed è straordinario ogni volta seguirne le corrispondenze, vedere come prende corpo! Romeo chiama la fase di concezione “esercizi spirituali”, con riferimento a Ignazio di Loyola.
Esemplare è la messa in scena dell’Orphée et Eurydice. Dal tuffo nell’ascolto dell’opera di Gluck, Romeo ha raccolto l’immagine di una donna in coma, un’Euridice contemporanea, catturata in un limbico stato di presenza/assenza. Da quell’idea radicale e scabrosa è cominciato tutto: abbiamo conosciuto Els, una ragazza affetta da sindrome locked-in, e parallelamente abbiamo iniziato a sollevare questioni etiche, a titubare sulla correttezza del gesto, e di seguito istituito commissioni etiche, in dialogo con scienziati e medici, con ospedali e centri di ricerca.
Quando Romeo ha convocato l’immagine iniziale, il nesso ineludibile fra quella visione e il racconto mitologico sono stati per me autoevidenti: abbiamo imparato, sulla scorta di Hans Blumenberg, a pensare il mito non come un nucleo iconico dato una volta per tutte, all’origine. Il mito si dà sempre “in ricezione”, è nell’elaborazione costante del suo fulcro inafferrabile che si riattiva nell’oggi. E da questo assunto è stata sviluppata una scrittura ad anello come fosse uno sguardo doppio e simultaneo: la musica di Gluck veniva eseguita nel teatro La Monnaie e trasmessa in tempo reale nella camera di Els, nel reparto di neurologia del Centro riabilitativo Inkendaal; parallelamente lo spettatore del teatro compiva – attraverso la soggettiva in diretta di una steadycam – un viaggio per le strade della città (discesa infera) fino alla stanza di Els, per incontrare il suo sguardo. Le immagini filmiche erano fuori fuoco, offuscate, come se la nostra condizione di omologhi di Orfeo ci costringesse a un difetto ottico, un’ingiunzione a “non guardare!”, e dare luogo al perno antiteatrale par excellence di quel mito.

Short Theatre 2022, foto di Claudia Pajewski

4. Lasciandoli a se stessi, facciamo muovere i loro corpi. Vedo il magro che a malapena riesce a muoversi; vedo il sano e robusto in grado di correre. Se di tali risultati è capace la salute, di che cosa non sarà capace l’immortalità?
(Sant’Agostino, Discorso 242: paragrafo 7. 10)

Leggendo questi sei riferimenti per Resurrection, si nota un salto forte tra il quarto e il quinto punto, cioè fra Sant’Agostino da un lato e le mediche legali e le antropologhe dall’altro: ci racconti questa cesura nel dialogo con Castellucci? Com’è possibile che la grande risurrezione della carne sia tradotta nella “restituzione di un nome”? È una resurrezione totalmente laica, eppure Castellucci nel suo teatro coltiva molto il rito, la liturgia, lo spirituale: c’è sempre un contatto, anche indiretto, con l’alterità, in un orizzonte non-umano.

Il concetto di “rinascita” dopo la morte appartiene a molte religioni, ma la parola “resurrezione”, nella nostra cultura, è associata principalmente alla dottrina escatologica della Chiesa Cristiana, dogma di fede secondo cui nel Giorno del Giudizio i corpi risusciteranno e si ricongiungeranno alle rispettive anime. Nella messa in scena la dimensione escatologica è assorbita in una prospettiva totalmente terrena, laica.
In scena un gruppo di persone compie un vero lavoro di scavo, per quasi tutta durata della sinfonia. Lo spettatore diventa testimone di questa emersione di corpi, uno dopo l’altro, da sotto una coltre terrosa, come si stesse di fronte a una fossa comune. Romeo ha convocato l’immagine delle operazioni compiute da anatomopatologi e antropologi forensi che cercano di ridare i nomi ai corpi, restituire ai corpi l’identità perduta, corpi che riemergono dalla terra, dal mare, da fosse comuni appunto, come nel caso di Srebrenica. Qui la resurrezione del corpo equivale alla resurrezione del nome. Corpi senza rito funebre, senza la cura del pianto, persone cui viene negata la dignità della morte, lì a dimostrare che nella nostra epoca esistono morti di serie A e morti di serie B (per dirla con le parole di Cristina Cattaneo, una delle più importanti scienziate forensi italiane). Il precipitato spirituale dell’esperienza di Resurrection emerge, se ce n’è uno, dall’incontro tra quell’immagine e la musica di Mahler, che si fa massimamente inteso quando le voci del finale intonano un “canto della terra”, mentre una pioggia battente funge da ultimo lavacro.
È un fatto che l’Occidente abbia messo in moto strategie elette a eclissare la presenza della morte come evento concreto e riconoscibile, in favore di immaginari funzionali alla sua rimozione collettiva. D’altra parte, l’esistenza umana, e la sua fine, sono oggetto di strumentalizzazione da parte delle necropolitiche contemporanee, che legittimano il rischio di morte a cui sono sottoposti particolari gruppi e soggetti come un esito socialmente accettabile. Judith Butler suggerisce con urgenza di riconnettere il dolore nel seno della comunità, rivendicando il lutto collettivo come esercizio di giustizia sociale. Forse la scena può fare spazio, per un attimo, a una forma di pietas collettiva?

Short Theatre 2022, foto di Carolina Farina

5. Le schede con i volti delle vittime, i documenti e le fotografie portati dai parenti che cercavano e cercano ancora quei corpi, riempiono oggi gli scaffali del nostro laboratorio. Nelle menti di questi padri, fratelli, figli, mariti, oltre all’angoscia e alla frustrazione si annida lo strazio di chi non ha la certezza, di chi non ha potuto seppellire né onorare il corpo del proprio “caro”, e si chiede ancora oggi dove sia.
(Cristina Cattaneo)

Oltre al lavoro nei processi con registi e artiste, ti occupi di una serie di attività collaterali. Come pare emergere anche nel tuo recente volume Performance+curatela (2021), ci sono molti punti di tangenza fra le attività da dramaturg e quelle della curatela artistica. Sulla base delle tue esperienze come curatrice di Atlas of Transitions e come direttrice artistica di Short Theatre, si può dire che il lavoro curatoriale può essere pensato in termini drammaturgici?

Assolutamente sì. L’analogia fondamentale sta nella tensione prefigurativa che promuove tangenze e interferenze estetiche e discorsive. Quando si pensa un festival si pensa un ritmo, un’andatura, una dimensione atmosferica, alle tattiche per accogliere e non neutralizzare conflitto, così che emerga come un’arena agonistica. Il palinsesto è la parte più esigua, valgono di più la prossimità tra i lavori, l’attivazione dei formati d’incontro, la definizione di spazi pedagogici che istituiscono altre condizioni per lo spazio-tempo condiviso, laddove si dà corpo alla cura del tempo, dell’attesa, dello stare. Pensata in termini drammaturgici, la curatela diventa un campo costellazionale che alimenta la costruzione di fili e relazioni che rendono possibile la coabitazione di corpi differenti, che si alimenta “agendo di concerto” con grandi e piccole istituzioni culturali, con presidi urbani che operano sul piano culturale e sociale alla creazione di spazi di reciprocità.
Per me è stata importante l’esperienza di Atlas Of Transitions, progetto Creative Europe che ho curato per ERT nel triennio 2017-2020, dedicato al rapporto tra arte e migrazione attraverso lo spettacolo contemporaneo. Per me era un tema nuovo e ha richiesto uno studio specifico e quindi l’attivazione di un dialogo con i migranti e le migranti, l’istituzione di tavoli di collaborazione con i centri di accoglienza, con chi a Bologna opera nell’inclusione sociale. È stato essenziale chiedersi in che istituzione culturale si sarebbe trasformata il teatro nazionale, Arena del Sole, nell’accogliere il progetto, Abbiamo dismesso l’abito di presentare spettacoli tematici “sulla migrazione”, e lavorato a nessi di relazione con la città, in particolare con alcune zone periferiche. È stato bello e complesso inventare formati che il teatro fino a quell’altezza non aveva mai sperimentato.
Chiaramente con la città di Roma la questione è imparagonabilmente più complessa. Nell’ambito di Short Theatre abbiamo potenziato l’intreccio fra teorie e pratiche. Ne è un esempio la nascita della collana editoriale con Nero Editions, Short Books: il primo volume è Palcoscenici fantasma di Bernard Vouilloux, dedicato alla traiettoria artistica di Gisèle Vienne, artista a cui abbiamo dedicato un focus. Questi libricini, che ospiteranno generi testuali diversi nell’arco del triennio, pongono la questione di come il festival continua a essere operativo, ad agire, fuori dalla sua temporalità specifica, di come si può radicare nei saperi e quali saperi radica. A questo proposito, quest’anno abbiamo anche inaugurato una sorta di magazine digitale, CUT/ANALOGUE: né una rivista né un catalogo, ma scritture di diverso formato per approfondimenti teorici raggruppati secondo quattro rubriche: ECOTONI, COMBIN/AZIONI, VIANDANZE, TURBOLENZE. Penso a queste scritture anche come a un archivio, spesso le artiste e gli artisti di cui si parla nei testi vengono in Italia soltanto per il festival e poi di loro si perde traccia, e universi linguistici, estetiche, e orientamenti teorici si volatilizzano senza lasciare un sedimento, senza compostare un humus comune. Ora questa è una delle mie ossessioni. La scena troppo spesso testimonia una memoria breve.

6. La bauxite è una roccia sedimentaria impiegata per l’estrazione dell’allumina che sta alla base della lavorazione dell’alluminio. Prende il nome da Les Baux-de-Provence, paese dove avevano sede le prime cave estrattive inaugurate nel 1822. […] Le montagne rossastre che circondano lo Stadium sono il residuo estrattivo bauxitico delle cave di Saint-Louis-des-Aygalades attive fino al 1968.

Riccardo Corcione


in copertina: foto di Martina Ruggeri