Dieci anni di Pim. 2005-2015. Teatro e arti di uno spazio off
a cura di Roberto Rizzente con Antonella Cagali
Cue Press, 2015, pp. 230

Prova il Miracolo. Così rispondevano i membri del neonato Pim se chiedevi loro cosa significasse quella sigla a metà tra l’onomatopea da fumetto e il verso futurista. Era il 2005 e il miracolo era quello di scommettere su un progetto nuovo, nato nella semiperiferia milanese di uno scantinato di via Tertulliano: creare una Casa di cultura – una comunità più che un teatro – dove gli artisti potessero scambiare le proprie idee e dare vita a nuove prospettive, a nuove sinergie. Un’utopia dai contorni sfrangiati, la cui consistenza prese corpo giorno dopo giorno, legame dopo legame, spettacolo dopo spettacolo: transustanziazione artistica, la si potrebbe chiamare.

Sono passati dieci anni da allora e gli anniversari, si sa, sono sempre occasione di bilanci oltre che di festeggiamenti. Vale anche per il Pim che nel frattempo è diventato “off” e si è spostato in via Selvanesco. È così che Roberto Rizzente, firma tra le più preparate della critica teatrale (e non solo) milanese, ha dato alle stampe Dieci anni di Pim – 2005-15 Teatro e arti di uno spazio off, edito con la collaborazione di Antonella Cagali per i tipi di Cue Press. Un volume che, lungi dall’essere semplice omaggio celebrativo, assume lo sguardo composito e di confronto che ha sempre caratterizzato questo piccolo ma audace teatro.

Diviso in tre sezioni (STORIE, POLITICHE, ESTETICHE), il libro offre accanto a una parte “pratica” fatta di testimonianze, interviste e ricordi, anche prospettive “teoriche” dove il modello Pim diventa metro di misura per un’analisi ad ampio spettro del modo di fare teatro oggi in Italia. Ecco allora che a essere chiamati in causa non sono solo i protagonisti organici al Pim (da Massimo Bologna a Barbara Toma) o le compagnie che si sono avvicendate sul suo palco (dagli Anagoor a Deflorian/Tagliarini, dagli Zerogrammi a Abbondanza/Bertoni) ma anche organizzatori e critici. È il caso di Roberta Ferraresi (Tamburo di Kattrin) che concentra il suo intervento sul sistema delle residenze, arco di volta della politica culturale del Pim. Partendo dall’esperienza di Re_form del 2010 (sintesi dei “concetti inscindibili” di residenza e formazione), la Ferraresi mette in luce pregi e difetti di quello che, a tutti gli effetti, è uno degli strumenti più efficaci del teatro contemporaneo per poter “andare oltre il teatro” e accrescere la consapevolezza del pubblico del valore sociale, oltre che artistico, dell’arte drammatica. E proprio di pubblico si occupa Lorenzo Donati (Altre velocità) che, nel suo contributo, evidenzia la necessità di una formazione critica dello spettatore – e il Pim era stato lungimirante in questo, proponendo nel 2013 un laboratorio di critica pensato ad hoc per il suo pubblico – resa oggi ancor più indispensabile a fronte di un ruolo sempre più (inter)attivo delle platee. E molti altri ancora sono gli interrogativi (comodi e meno comodi) che “l’esperienza-Pim” porta sotto i riflettori: come far vivere l’esercizio teatrale nelle periferie? Come inquadrare il ruolo del mecenate (da sempre motore economico del teatro di via Selvanesco) nelle politiche cultural-finanziarie odierne?

Un’eterogeneità di temi e di vedute che esprime a pieno la convinzione connaturata al Pim (il cui simbolo del resto è il tangram) che parti diverse tra loro siano fonte di ricchezza, anche qualora, proprio in nome di questa modularità, venissero sostituite. Significativa, in tal senso, la scelta di Rizzente di mettere a confronto le interviste fatte nel 2006 ai membri del collettivo in carica (Maria Pietroleonardo, Massimo Bologna, Edoardo Favetti, Samantha Oldani, Simone Ricciardi) con quelle raccolte da alcuni di loro oggi, dopo che numerose e importanti metamorfosi li hanno portati, in buona parte, lontano dal progetto. Un faccia a faccia che oltre a soddisfare la curiosità del lettore di sapere “che fine hanno fatto” le singole personalità (sembrerà banale, ma nel mondo teatrale seguire i percorsi individuali non è sempre cosa facile), consente di vedere, come in un grafico, il percorso progressivo – che non sempre fa rima con evolutivo – di un’avventura durata dieci anni.

E nonostante le variabili siano state (e saranno) tante, è eloquente poter avvertire nella ricca partitura di parole, aneddoti e valutazioni, una nota costante di riconoscenza. Una gratitudine che – si intuisce – da una parte è legittimo orgoglio per aver contribuito a fare del Pim un polo culturale con un’identità marcata nella già densamente abitata capitale del teatro italiano; dall’altra è consapevolezza di aver potuto accendere e dar voce con notevole libertà alla propria professionalità, alla proprie convinzioni socio-culturali. Pim off? Per altri dieci anni, speriamo, Pim on!

Corrado Rovida