drammaturgia di Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia di Antonio Latella
visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano_ 19 gennaio-12 febbraio 2017
Che il Pinocchio di Antonio Latella sarebbe stato tutt’altro che una favola consolatoria ce lo si aspettava da tempo. In questa prima produzione affidatagli dal Piccolo Teatro, che riconosce finalmente un meritato ruolo al regista neo-direttore della Biennale di Venezia, la favola collodiana si trasforma in un universo di segni da attraversare, interpretare, comporre come un affresco .
A ripensare a questo Pinocchio, anche ad alcuni giorni di distanza, si ha l’impressione di essersi immersi in un magma onirico di immagini, figure, riferimenti e metafore, tenuti insieme da una profonda ricerca che indaga parallelamente il testo collodiano e il subconscio dell’essere umano.
Se la prima parte dello spettacolo ripercorre a grandi passi la Storia di un burattino pubblicata da Collodi nel 1881, in cui Pinocchio, continuamente minacciato dal fuoco e dalla propria materia lignea, finisce impiccato per mano del Gatto e della Volpe, la seconda riprende e reinterpreta con maggiore libertà interpretativa il sequel che Collodi fu chiamato a scrivere su sollecitazione dei suoi lettori. E quella che doveva essere la rinascita a lieto fine del burattino che diventa bambino, qui diventa viaggio iniziatico che attraversa il mondo dei morti, non a caso punteggiato di riferimenti Danteschi. Più cupa fin dagli elementi visivi della scena e delle luci, questa seconda parte si articola in un onirico universo di incontri, soprusi, pericoli e sofferenze, ben più oscuri e atroci di quelli proposti da Collodi: Pinocchio scopre le lacrime sulla tomba della Fata Turchina, viene mangiato dalla balena ma subisce anche ogni tipo di violenza, fisica e morale, dal mondo degli adulti.
Per Antonio Latella Pinocchio nasce sotto una pioggia di trucioli, da un pezzo di tronco parlante forgiato sotto a una sega circolare. La segatura che cospargerà come polvere il palcoscenico, a intermittenza, per tutta la durata dello spettacolo, è il segno visivo che più colpisce nella scenografia di Giuseppe Stellato. Nella nudità della scatola scenica a vista, come Latella ci ha ormai da tempo abituato, il palco è attraversato da un grosso tronco d’albero che cresce e si accorcia avanzando dalle quinte, proprio come il naso del protagonista. Un tronco parallelo al pubblico, che nella seconda parte ruoterà su se stesso fino a diventare lo scheletro del ventre marino che ha inghiottito il burattino.
La scrittura scenica è incalzante e non concede pause: “Camminare stanca, correre mai” dice Pinocchio affamato di scoprire il mondo. E senza freni sfonda con un gong la porta di casa (sulla scena una grande lastra di metallo) nonostante i moniti di papà Geppetto e del Grillo Parlante: “chi va forte va incontro alla morte”.
Gli attori stanno tutti al passo di questa corsa a ritmo accelerato, Pinocchio per primo. Interpretato da Christian La Rosa, in cui riconosciamo i gemiti e i gesti compulsivi dell’Oreste di Santa Estasi, è iperattivo e incontenibile, in un tripudio di movimenti e di parole. Massimiliano Speziani, che fa il suo ingresso in scena come Geppetto per poi diventare Mangiafuoco, Giudice, Pescatore e Padrone del circo, incarnando tutte le figure di uomo adulto in cui Pinocchio si imbatte nel suo pellegrinare, alterna instancabilmente lazzi da commedia dell’arte alla durezza della figura paterna.
Anche la ricerca sulla lingua di Collodi sembra trovare la sua evoluzione nella drammaturgia, scritta a più mani da Latella con Linda Dalisi e Federico Bellini: oltre a sottolineare alcune peculiarità del testo originale, si esasperano i fonemi, la sonorità delle parole e le derivazioni di significato. Tocco, Testa, Mamma, Fame diventano parole balbettate e insistite, da cui derivano suoni e aperture di senso. La parola sembra farsi carne, in senso propriamente performativo.
Pinocchio sembra allora essere il punto di appoggio, o forse il punto di arrivo, di una ricerca che, per strati, scompone episodio per episodio il testo originale, aprendo delle finestre sulle inquietudini dell’animo umano e sulle difficoltà del viaggio della vita. In ogni personaggio sembra nascondersi una, o molteplici, questioni irrisolte dell’animo umano: Geppetto e la difficoltà (o l’egoismo) di essere padre, Pinocchio e la paura di affrontare il reale, la Fata Turchina e l’assenza di una figura materna. Lucignolo è voce interiore che emerge da quel ceppo inchiodato al collo e di cui, prima o poi, bisognerà fare a meno.
Ritroviamo, in questo Pinocchio, le tracce del lavoro registico di Latella: la distruzione della tranquillità famigliare del Natale in Casa Cupiello riemerge qui sotto forma di una disillusione che non concede nessun lieto fine e che, superando le vicende del testo di partenza, prende la forma di un viaggio nelle parti più oscure dell’animo umano. Se nel Natale si lavorava in sottrazione, qui assistiamo a un’espressività esasperata e incontenibile: sembra di rivedere, nell’arrivo nel Paese dei Balocchi in chiave rave party, la baraonda tra i commensali al pranzo a casa Cupiello. Ma oltre a Eduardo, ritroviamo anche i lazzi dell’Arlecchino, l’indagine pasoliniana sulla figura materna recentemente presentata, al Piccolo, in MA, o ancora le lotte familiari di Santa Estasi.
Mantenere il rapporto tra favola e realtà, in un equilibrio di lati immaginifici e lati oscuri, sembra essere uno dei punti cardine di questa regia di Latella. Che ci ricorda, nella labile differenza tra finzione (o bugia) e verità, che scoprire il mondo, crescere e immergersi nella realtà, sono sfide che non lasciano via di uscita. E quando la finzione diventa realtà, come accade al tavolo da pranzo intorno al quale finalmente padre e figlio, in carne e ossa, possono parlarsi, una bugia può diventare l’unica consolazione.
Francesca Serrazanetti