Dialogo tra uomo e donna
di Saverio La Ruina
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano _ 20-25 gennaio 2015

#1. Aguzzi frammenti di realtà

Dopo avere dato voce con misurata delicatezza alla figura femminile (in La Borto e Dissonorata) Saverio La Ruina con Polvere decide di fare uno scarto su più livelli: non solo passa alla parte dell’uomo e si affianca in scena a un’altra interprete, ma abbandona il racconto immaginifico di episodi, tempi e terre evocati per astrazione per passare a un’interpretazione diretta della realtà.
Polvere traccia il ritratto asciutto di un rapporto di coppia che si trasforma in ossessione: l’iper-realismo del testo, la definizione puntuale delle dinamiche con cui l’uomo stinge la morsa sulla libertà (fisica e psicologica) della compagna degenerano in modo progressivo ed estenuante.

Lo spettacolo è un condensato di frammenti di realtà, sconcertante per quanto sia immagine precisa e razionale di dinamiche in cui non è così difficile cadere. Le rispettive fragilità si alimentano l’un l’altra, fino a quando le insicurezze di lui sfociano in un controllo ossessivo, in una violenza verbale e psicologica sempre più aggressiva. Le dolcezze forzate, la pretesa di attenzioni esclusive, il controllo totale sulla sua vita e sul suo passato, la gelosia incontrollabile arrivano a innestarsi nella mente della donna fino a farle perdere lucidità nell’interpretazione del reale, a non riuscire a ricordare come siano andate esattamente le cose, ad avere paura di raccontare anche le vicende più innocue, a renderla incapace di rispondere alle continue e insistenti domande. Infine, fino a soffocare la propria identità.

La drammaturgia opera per sottrazione, mettendo a punto una traccia densa che non lascia spazio al superfluo. Restano tempi minimi – ma sufficienti – per raccontare la dolcezza di un amore che di fatto esiste ma di cui si perde il controllo: le carezze misurate, le attenzioni, le apparenti e ripetute riconciliazioni, l’abbraccio che permette a lei di superare le proprie paure. Il resto è lasciato alle recriminatorie dell’uomo, alle pretese assurde, alle accuse infondate che si insinuano dapprima con gentilezza e poi con crescente e incontrollata violenza nella mente di lei, che incassa senza reagire col solo desiderio di dire e fare quello che l’uomo si aspetta.

La violenza interpretata da La Ruina è controllata, trattenuta, mai sopra le righe. A renderla insopportabile è forse proprio questo: il suo mascherarsi di dolcezza, di bisogno di controllo, in un rapporto di dipendenza totale. La reiterazione delle dinamiche, delle domande e delle accuse arriva a esasperare il pubblico: il testo è a tratti prevedibile, in certi momenti siamo in grado di anticipare quello che succederà. Ma la ripetitività – che indugia nella noia e nella banalità – è funzionale a coinvolgere chi ascolta nel meccanismo di cui lei stessa è succube. Si va a cadere sempre lì, ma lei non riesce a uscire dalla gabbia. Una gabbia tracciata sulla scena dal quadrato del soggiorno della casa di lei, dove si consumano conversazioni apparentemente assurde e allo stesso tempo fastidiosamente scontate ma curate in ogni pausa, in ogni tono, in ogni gesto.

Il pubblico è incapace di restare fermo, ha un impulso istintivo a reagire, ad aprire gli occhi alla donna, a commentare ad alta voce dalla platea, coinvolto per estenuazione nella natura malata del rapporto. Il fastidio che proviamo, seduti in platea, è dovuto all’altalentante prevedibilità di quello che vediamo, o piuttosto alla verosimiglianza di situazioni molto più diffuse, nascoste e vicine di quanto pensiamo?

Francesca Serrazanetti

#2. Nitidezza in polvere

“È in discussione il sentimento!”. Siamo già verso la fine del nuovo spettacolo di Saverio La Ruina, Polvere, e queste parole in bocca a Lui, a quell’uomo odioso che vessa da un’ora la propria compagna (Lei), suonano del tutto inappropriate, quasi offensive per la maggior parte del pubblico. Ma quale sentimento?! Gli spettatori sono estenuati dall’impotenza a cui sono stati sottoposti, hanno fatto fatica a trattenersi durante la logorrea insinuante di Lui, davanti alla sua reiterata violenza psicologica (a tratti anche fisica), tanto che una signora sbotta e si permette di dare a Lei un consiglio liberatorio: “sparagli!”. Eppure quel chiamare in causa l’emotività non è affatto inadeguato, anzi, ciò di cui si parla è davvero un’esigenza viscerale, solo non si tratta di amore, come si potrebbe supporre, bensì di prevaricazione.

È proprio questa l’ambiguità causata dalla polvere: confonde termini e realtà, rende impossibile vedere dall’interno della coppia come stanno le cose, è fatta di disorientante mistificazione, di raffinati arabeschi logico-lessicali atti ad ammantare di falso raziocinio un rapporto che ha invece tutti i sintomi di una patologia grave e spesso letale. Ecco allora che a Lui basta un pretesto (una sedia spostata, la forma delle sopracciglia di Lei, il colore di un vestito) per dare vita al suo esercizio di sottomissione: la riduce prima ad animale ammaestrato (siediti, alzati, fammi il the), poi la scompone, processa le sue intenzioni, i suoi gesti, viviseziona i suoi pensieri nascosti, finché la polvere che era nell’aria non diventa quella di un essere umano frantumato, ridotto ai minimi termini.

La Ruina esamina gli ingranaggi. Lo sguardo dello spettatore, sembra volerci dire, deve essere sgombro da dubbi, lavato da ciò che può ottenebrare un giudizio di aperta colpevolezza. Ed è forse in questa necessità di pulizia, in questa attitudine all’exemplum, al rigore analitico, descrittivo e dimostrativo insieme, che lo spettacolo trova la sua forza ma, al contempo, la sua debolezza maggiore. La forza consiste in una prodigiosa efficienza teatrale: riuscire a provocare, qui e ora, le reazioni del pubblico, sensibilizzare attraverso due personaggi estremamente riconoscibili. Lui e Lei (i nomi propri lasciano il posto ad epiteti da fidanzatini su cui regna sovrano ‘amore’) rappresentano un modello di studio, un luogo comune fatto di concretezza e astrazione: modulati su toni medi, quasi banali, usano frasi fatte (“Qui c’è scritto fragile!”, dice Lei indicando se stessa; “Diciamolo, te la sei cercata, puttana!” esclama Lui all’apice della meschinità) incarnano, fin dalla prima scena, ruoli tipici, universali, nel loro manicheismo.

Se dunque il j’accuse di La Ruina brilla per efficacia nelle sue finalità educativo-pedagogiche, il rischio è, viceversa, che lo spettacolo possa risultare assai simile a un’ipertrofica pubblicità progresso, dove al prevalere della bidimensionalità corrisponde un assottigliamento dell’interesse dello spettatore. È così che anche in una delle scene più toccanti e autentiche, quando Lui, tenendola stretta a sé, assiste la compagna, timorosa, nell’offrire una mela a un cavallo, il pubblico, quasi stregato dall’effetto Kuleshov, legge solo costrizione dove, a ben vedere, stava scritto anche tenerezza. Anche la nitidezza può diventare accecante.

Corrado Rovida