Abbiamo intervistato Eliana Rotella, drammaturga e attrice, e Diego Piemontese, stand-up comedian. Insieme hanno scritto e interpretano Controtempo, testo vincitore nel 2024 del Premio Bepo Maffioli (sezione giuria popolare) e del Premio Carlo Annoni. Con loro abbiamo parlato di queerness, di rapporti familiari, di un privato che diviene politico, della difficoltà di appartenere a minoranze. Il Festival Lecite Visioni al Teatro Filodrammatici ospita, domenica 11 maggio, la prima mise en espace, con la regia di Giulia Sangiorgio, di un lavoro che fonde ironia e profonda, commossa umanità.

Nel programma di sala del festival si legge che «essere controtempo significa trovarsi fuori posto ma agire comunque, un tentativo di occupare il proprio spazio senza riuscirci pienamente». Cosa significa per voi, personalmente e artisticamente, il termine “controtempo”? In che modo ha preso forma nella vostra scrittura scenica e drammaturgica?

Eliana Rotella: Partirei da una considerazione generale: ultimamente, mi sono resa conto che parlare di alcune tematiche risulta spesso una rincorsa in controtempo, nel senso che non c’è mai un esito di arrivo e il dibattito è sempre in divenire. Alcune questioni sono così in movimento che non vi è mai un momento di stabilità, tanto da aver ormai accettato di sentirmi in una situazione di perenne instabilità, in cui tutte le mie affermazioni possono essere rimesse in discussione da un momento all’altro. È una decostruzione che non finisce: anche quando si pensa di essere giunti a un convincimento, dopo molto sforzo, si scopre quanto sia ancora necessario smontare e ricollocarsi. Stare in controtempo, quindi, significa posizionarsi in uno spazio scomodo, in cui è possibile continuare ad ascoltare, mettersi in dubbio e cercare nuovi termini per raccontare storie o parlare di alcune tematiche. Nel caso specifico, poi, è una parola che abbiamo trovato io e Diego, la notte prima di consegnare il testo. A un certo punto ci siamo imbattuti in questo termine e ci è parso adeguato perché, anche nel testo, le due persone in scena si trovano sempre in una situazione di incertezza verso il mondo e verso se stess*.  Infine, mi preme sottolineare che la riflessione su questi temi conduce inevitabilmente a parlare di posizioni rispetto al proprio privilegio sociale, politico, ecologico: ecco la situazione di sincope.

Diego Piemontese: Anche per me la parola “controtempo” è stata un’illuminazione arrivata alla fine della scrittura del testo. Stavamo cercando qualcosa che potesse unire i vari aspetti del nostro lavoro; così, partendo dal mondo della musica, affine a Eliana, e da quello della comicità che mi appartiene, abbiamo trovato questa parola che è in grado di unire i due ambiti. Richiama anche l’aspetto sportivo, al quale io tengo molto. Per quanto riguarda un aspetto personale, invece, a mio avviso la vita di chi vive ai margini è vissuta spesso in controtempo. Il meccanismo risulta ancora più accentuato quando l’appartenenza a una minoranza subentra in un secondo momento della vita di una persona, come è capitato a me o come spesso accade ai membri della comunità LGBTQIA+. Proprio perché non si è stati parte di una minoranza fin dalla nascita, ci si accorge di questo brutale cambiamento. Da lì si inizia a stare in controtempo.

Eliana Rotella, foto di Marco De Sanctis

La storia che raccontate ha a che fare con un tema che riguarda tutt*: quello della presentazione del partner alla propria famiglia, se non fosse per il fatto che uno dei protagonisti è un ragazzo transessuale ed è quindi necessario inventarsi un nuovo vocabolario per comunicare tale variabile dell’identità. Quanto è necessaria la costruzione di parole nuove per dirsi e quanto è importante per i protagonisti della vicenda nella loro quotidianità?

D.P.: La costruzione di un nuovo linguaggio è fondamentale per immaginare e rendere visibili realtà molteplici, se non infinite. È proprio da questa idea che nasce la nostra storia, che vede come protagonisti Effe, una ragazza, ed Emme, un ragazzo trans, come lo sono io. C’è quindi uno spunto autobiografico, nonostante poi la narrazione si apra a una dimensione più ampia e universale. La coppia si confronta sulla possibilità e sui modi di annunciare ai genitori di lei, durante un pranzo di famiglia, che il proprio compagno ha completato un percorso di transizione. La vicenda ruota intorno alla tensione tra il desiderio di autenticità e la necessità di mantenere una maschera socialmente accettabile. Il tema del linguaggio non riguarda solo Emme e il suo percorso di affermazione come uomo trans, ma anche Effe, che ha sperimentato personalmente cosa significhi essere messa a tacere, anche dai suoi stessi genitori.

E.R.: Un aspetto del linguaggio sul quale io e Diego ci troviamo spesso a parlare è il suo ruolo come forma di compromesso. C’è infatti un evidente squilibrio tra la complessità di certi discorsi, come quelli legati al genere, e la necessità di trovare parole accessibili, capaci di raggiungere anche chi non ha familiarità con questi temi. In Controtempo, ad esempio, i genitori appartengono a un’altra generazione e non possiedono gli strumenti per decifrare una realtà così articolata. A quel punto, cosa si fa? Ci si irrigidisce su posizioni radicali, rifiutando il dialogo, oppure si prova a cercare un terreno comune? Emme sceglie la seconda via, trovando un punto d’incontro che gli consenta di conciliare la propria autenticità con le aspettative del contesto sociale, attraverso l’esempio concreto del regionalismo.

D.P.: In effetti, questo espediente deriva da un episodio realmente vissuto. Ricordo che un ragazzo del Sud mi espresse dubbi circa la sua appartenenza regionale, perché dopo tanti anni di soggiorno a Milano si sentiva «un po’ del Sud e un po’ di Milano». Partendo da questo suo sentimento, ho creato un parallelismo con il non-binarismo di genere, proponendo la sua esperienza come una sorta di “non-binarismo regionale”, una chiave che ha reso più facile comprendere l’idea di un’identità di genere non rigida e non esclusiva. La riflessione sul linguaggio attraversa il testo in diversi momenti di dialogo tra Emme ed Effe. In una scena, ad esempio, Effe cita Judith Butler; Emme le chiede se siano davvero sicuri di voler ricorrere alle teorie di una filosofa femminista per spiegare un fatto. Ci è sembrato interessante che a portare avanti queste istanze non fosse, tra le due, la persona trans. Spesso, infatti, almeno nella mia esperienza, chi è direttamente coinvolto preferisce evitare il conflitto, accettando un’interpretazione anche sbagliata pur di non dover affrontare ulteriori tensioni. Secondo noi, invece, è possibile usare il linguaggio per chiarire senza rinunciare alla complessità. La limpidità è essenziale per uscire dalla propria “bolla” e per aprirsi al dialogo; tuttavia bisogna stare in guardia rispetto a una semplificazione eccessiva, poiché rischia di diventare una forma di impoverimento, una rinuncia alla ricchezza dei significati.

Diego Piemontese

Qual è stata l’urgenza narrativa, politica o esistenziale che vi ha spinto a raccontare questa storia, in questo modo e in questo momento storico?

D.P: Il progetto è nato soprattutto dal nostro desiderio condiviso di collaborare. Da anni io ed Eliana volevamo creare qualcosa insieme e dopo aver trovato ciascuno un proprio linguaggio espressivo e artistico, diverso ma complementare, abbiamo sentito la necessità di unirli. L’urgenza è nata dalla volontà di affrontare alcune tematiche in modo accessibile, dando vita a uno spettacolo che potesse essere compreso da tutti e che, al tempo stesso, sapesse andare in profondità, toccando corde intime e complesse. E questo proprio alla luce del momento storico e politico che stiamo vivendo. La vera conferma di aver raggiunto il nostro obiettivo è arrivata dopo il premio Bepo Maffioli, assegnato da una giuria popolare: alcune signore settantenni venete, cresciute in provincia di Treviso, si sono avvicinate per dirmi che grazie allo spettacolo avevano compreso concetti a cui non si erano mai avvicinate prima.

In relazione ai vostri linguaggi comunicativi diversi – la stand-up per Diego Piemontese e la drammaturgia per Eliana Rotella – come siete riusciti a raggiungere un compromesso?

E.R.: Il testo è nato da un processo di scrittura condivisa, realizzato sia in presenza sia a distanza, lavorando in momenti diversi su un unico file. Fin dall’inizio della stesura, avevamo chiari i tratti distintivi dei due personaggi e dei loro rispettivi linguaggi, con l’obiettivo di creare momenti di conflitto dialogico e comico, facendo interagire e scontrare le loro visioni. Successivamente, abbiamo scelto di inserire sezioni in cui i due linguaggi potessero esplodere pienamente: da una parte attraverso momenti di stand-up pura per Emme, interpretato da Diego, dall’altra con monologhi drammatici per Effe, interpretata da me. A un certo punto del testo, questi registri, inizialmente molto diversi, si fondono in un monologo finale che intende mostrare come, di fronte alla necessità di presentarsi al mondo, anche linguaggi apparentemente inconciliabili possano trovare un modo per parlare insieme, congiuntamente. Per me, questa volontà di creare un fronte comune e di individuare legami rappresenta non solo un’esigenza drammaturgica, ma anche un gesto politico. Così, l’utilizzo di registri linguistici differenti si configura sia come opportunità di conflitto narrativo, sia come possibilità di costruire ponti e nuove forme di dialogo.

D.P.: Io credo che la facilità con cui siamo riusciti a far dialogare i nostri linguaggi derivi anche da una profonda conoscenza personale e reciproca: ci siamo conosciuti in un momento in cui entrambi stavamo ancora studiando, e io ho curato la regia di due testi di Eliana. Al contempo, Eliana ha avuto modo di assistere a molte ore dei miei spettacoli di stand-up comedy, così come io ho avuto modo di approfondire la sua scrittura drammatica. Questa familiarità con l’altro ci ha permesso di attingere, spesso in modo inconsapevole, a un patrimonio comune che ci eravamo scambiati nel tempo. Uno degli aspetti più divertenti del lavoro è poter affermare che Eliana, che ha sempre scritto drammi, ha finalmente fatto qualcosa che fa ridere!

Nella nostra conversazione con Michele Di Giacomo abbiamo esplorato il significato politico e sociale del termine “queer” e il modo in cui esso entra nelle dinamiche del festival. Cos’è per voi “queer” e come si inserisce nel vostro spettacolo?

E.R.: Un concetto per me di grande verità è che “si può essere gay senza essere queer”. Vivo il termine queer come una parola molto pervasiva che non riguarda solo l’orientamento sessuale o l’identità di genere, ma si intreccia molto a una postura nei confronti del mondo. Per me, la queerness è un discorso aperto; penso che non sia un dialogo destinato a chiudersi mai e questo è un presupposto molto importante per la sua definizione. Mi sento una persona queer? Assolutamente sì. Ci ho messo molto per capirlo? Abbastanza. Posso dire che ho veramente abbracciato la mia parte queer da poco proprio perché, spesso, ci sono stati anche dei silenzi. Ma anche interagire con il silenzio del proprio privilegio e farci i conti è un atto queer da compiere.

D.P.: Sottoscrivo che si possa essere gay senza essere queer, e aggiungo: si può essere persone trans senza essere queer. La traduzione di queer, prima che l’attivismo la risemantizzasse, parla di qualcuno di bizzarro o dall’aspetto strambo; per me, invece, essere queer significa aver vissuto un margine e non dimenticarlo. Saper mettere in discussione il proprio privilegio ogni giorno è un atto di responsabilità.

a cura di Matteo Martinelli e Carlo Paroli


immagine di copertina: Giulia Sangiorgio, Diego Piemontese, Eliana Rotella

L’intervista fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Lecite Visioni 2025