di Thomas Bernhard

visto al Teatro i di Milano _ 9-27 novembre 2011

È tra gli autori più rappresentati delle ultime stagioni l’austriaco Thomas Bernhard, caustico scoperchiatore dei delitti e delle pene della coscienza dell’uomo moderno. Lo Stabile di Torino ha ospitato a gennaio l’Elisabetta II, opera del 1987 fino ad allora mai rappresentata in Italia, che ha come protagonista Rudolf Herrenstein, potente industriale ebreo paraplegico che fabbrica cannoni e dipende in tutto e per tutto dal suo servo. Contemporaneamente girava l’Italia l’Immanuel Kant nella versione di Alessandro Gassman, mentre il critico Renato Palazzi ha scovato e messo in scena, con intelligente ironia e saggia naturalezza, un minidramma giocoso “da camera” (pensato per essere rappresentato in casa di privati) il Goehte schiatta, dove il poeta tedesco, vicino alla morte, è ansioso di incontrare di persona il filosofo Ludwig Wittgenstein.

Un posto a parte merita la ripresa dei testi storico-politici dell’austriaco. Al nuovo di Napoli si sono appena concluse le repliche del Presidente: la tragicommedia, scritta nel 1975, ha sullo sfondo i tragici fatti della banda anarchica Baader Meinhoff e il processo in corso in quegli anni.

A Milano, il Teatro i di Renzo Martinelli e Federica Fracassi, fresca vincitrice del premio della critica e del Duse, riporta in cartellone un testo cupo e claustrofobico: Prima della pensione, scritto da Bernhard nel 1979, già proposto dal teatro milanese nel 2006.

Siamo in Germania. Sullo sfondo della vicenda si affaccia il nazismo e i figli della perversione che sono sopravvissuti a distanza di anni dal crollo di Hitler. Protagonista è una famiglia nazista che, come ogni anno, si riunisce per festeggiare il compleanno di Himmler. Questa volta con un motivo in più: è l’anno prima della tanto attesa pensione del fratello maggiore, il giudice ed ex ufficiale delle SS Rudolf Holler. Un traguardo che non sarà mai raggiunto: la tragedia è in agguato. Con lui ci sono la sorella Carla, che lo compiace e lo venera come un dio, e la terzogenita Vera, finita in sedia a rotelle per un bombardamento sulla sua scuola durante la guerra, divoratrice di quei giornali che il resto della famiglia considera sporche pagine socialdemocratiche.

La scena è un interno da dramma borghese, ma amplificato: Martinelli fa muovere i tre personaggi (tre è un numero emblematico, saranno sempre tre le persone in scena, per tutto il dramma, anche quando sembrano due) in un cubo trasparente, una grande teca di plexiglass che contiene un appartamento ordinato, con un salottino, una sala da pranzo e i tre fratelli che non sono vecchi avanzi di un passato lontano, ma giovani infissi nel gelo di un eterno presente. Sono i bravi ed efficaci Michelangelo Dalisi, dall’incredibile sguardo pazzoide e gelido, la contrita Irene Valota, che nervosamente muove le mani e fa suonare i bracciali che ha ai polsi dalla sua sedia a rotelle e Federica Fracassi, protagonista puntigliosa, nevrotica, eccessiva e frivola quanto serve, stravolta dalla vita e incapace di vivere il presente come di costruirsi un futuro.

A loro si aggiunge un quarto personaggio, Olga (Francesca Garolla), la bambina sordomuta che nel testo viene solo accennata nel primo atto, in un dialogo tra le sorelle Vera e Clara. In scena invece Olga guarda il pubblico, è con il pubblico, è la prima testimone dello spettacolo. Non può sentire né parlare, ma vede; apre e chiude il sipario, chiama il pubblico a divenire testimone attivo.

Nella scena così costruita i veri protagonisti rimangono però i vizi e le ossessioni del nucleo familiare, le ipocrisie e i segreti, i rapporti di forza, la cronica e avvilente incapacità di prendersi responsabilità, un inestirpabile male di vivere che è già matura psicosi, non solo dei singoli, ma, sembra dirci l’autore, dell’intera società contemporanea. Le assurde dinamiche famigliari assecondano i lati peggiori di personaggi già orrendi, nei quali si annidano ottusità, fanatismo, pessimismo e volgarità. Un dramma, il loro, che è vera lotta per la sopravvivenza, persa in partenza.

Attori solidi e regia lucida per un classico che, sì, vale ancora la pena di vedere.

Francesca Gambarini