Teatro e crisi: sguardi oltre l’emergenza – Taccuino – Stratagemmi 11
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Descrizione
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Succede che il teatro ricominci a volte da zero, ripulito da tutto, da tutte le sovrastrutture intellettuali, verso un bisogno primigenio, è forse un ‘teatro delle sorgenti’ come lo chiamava Grotowski, è forse un teatro necessario, come sostengono molti altri”, scrive Andrea Mancini, docente di iconografia del teatro all’Università di Siena nella prefazione del volume A scene chiuse. Esperienze e immagini di teatro in carcere (Corazzano, Titivillus, 2008). Di questo teatro intendiamo parlare. Del teatro che, prima di diventare un evento costruito ad hoc per gli spettatori, è per sua natura medium, costruttore di relazioni, sorgente e forza in grado di scardinare ordini precostituiti, di sovvertire priorità e di trasformare in centro le marginalità. Del teatro che va insieme nella direzione dell’arte e in quella della riabilitazione, dell’educazione, della necessità collettiva e del pubblico servizio, come amava dire Paolo Grassi. Del teatro che sa guardare in faccia le crisi, sociali, civili, collettive, ne individua il punto di rottura e lì interviene, con i modi e le strutture che gli sono connaturati. Dal Kosovo devastato dalla guerra civile agli anfratti della Budapest post comunista, dal carcere di massima sicurezza di Volterra, in Toscana, al Teatro Ringhiera nel quartiere periferico del Gratosoglio a Milano, dal villaggio di Granara, cantiere di sperimentazioni ispirato a un modello ecologico, alle scuole e ai licei di ogni livello disseminati nel capoluogo lombardo: vi proponiamo un excursus che traccia possibili aperture su tutti quei luoghi in cui il teatro sembra superfluo e invece risulta necessario.
Quando si deve intervenire in una situazione di emergenza le due parole chiave sono urgenza e servizio di comunità: urgenza perché ci sono gravi necessità e bisogni impellenti, servizio di comunità perché il fulcro fondamentale sul quale ci si focalizza è la collettività, con i suoi bisogni, i suoi diritti e le sue esigenze. “Il teatro risponde perfettamente a queste necessità, si può dire che agisca come un farmaco”, ha detto a “Stratagemmi” Guglielmo Schininà, consulente di teatro psicosociale per le Nazioni Unite che ha lavorato nei Balcani e in Kosovo con le popolazioni traumatizzate dal conflitto. Schininà adotta il modello del cerchio complesso, una costruzione simbolica che annulla il triangolo vittima, carnefice, salvatore e ristabilisce le relazioni umane all’interno di una circolarità, mentre l’individuo torna a sentirsi parte di una comunità dove è accettato e può alla fine nuovamente riconoscere la sua identità. Ma se l’esperienza del teatro “di emergenza” di Schininà si rivela così indispensabile in situazioni limite come quelle di paesi in cui sono in atto guerre e conflitti, il teatro inteso come medium sociale può anche lavorare in contesti molto più vicini. È il teatro che vive, ad esempio, fuori dal teatro, nelle periferie delle città, nelle scuole, con i disabili, nei carceri.