Alla base di Toccare, the white dance, c’è l’idea del “toccare” come gesto fondante, come relazione tra singolo e alterità. Che significato ha per te questa parola?
“Toccare” è per me innanzitutto un pensiero sul mondo. La fisica quantistica afferma che ogni gesto che facciamo ha un riverbero, attraversa la materia, il tempo e lo spazio per finire chissà dove. Il gesto fondante il mondo è allora proprio il tocco: tocchiamo la materia e ne siamo toccati. Da un punto di vista umano, il toccare di cui parlo ha a che vedere con una postura rispetto al tutto, consiste cioè in “una presa che non possiede”. È la consapevolezza di far parte di un tutto che non abbiamo il diritto di possedere. Questo pensiero crea un’interazione nuova tra umano e no: mette in discussione il rapporto che abbiamo instaurato con il mondo che ci circonda. Per prendere consapevolezza di questo tocco, per sentire come sia possibile toccare senza prendere e lasciarsi toccare, lasciarsi attraversare, è necessaria la pratica.

Come questo pensiero sul mondo, il toccare senza prendere e il lasciarsi toccare, prende corpo nella tua danza?
Ai miei danzatori chiedo sempre di proiettare al di fuori i loro gesti, proprio perché danzare non è mai qualcosa che si può possedere: il momento in cui stai danzando è già passato, non c’è più. In questo senso la danza è davvero effimera, appare e scompare continuamente e da questo punto di vista contiene un profondo principio di uguaglianza. È qualcosa che appartiene a tutti e solo accettando e prendendo coscienza di ciò anche il peso specifico dei gesti assume un valore nuovo. L’elemento fondante del fare non è più quello performativo, ma quello esistenziale: danzo perché sono.

Durante la creazione di Toccare, the white dance, hai scritto una liturgia da ripetere quotidianamente sull’idea del “fare corpo”. Che significato ha per te questa espressione? Soprattutto, in un mondo in cui il corpo viene esposto come un oggetto, esiste una mediazione tra il corpo reale e quello che mostriamo?
Ho scritto questa liturgia durante il lockdown, seguendo una mia personale modalità di uso del linguaggio. Do molta importanza alle parole e trovare un linguaggio più poetico per dare forma alle percezioni mi aiuta durante il processo creativo. Il “fare corpo” è legato per me al posare le forme, idea che riconnetto alla danza. Posare le forme significa sganciarsi dalla dimensione performativa per riconnettersi alla propria vibrazione interna, che è sempre singolare e che appartiene a un livello più intimo, invisibile. Il tentativo è di rendere molto concreto il corpo. A tal proposito penso sia opportuno riappropriarsi della parola “carne”: nella carne vengono incise le esperienze che viviamo nel corso della vita. Se capiamo questo, ecco che l’idea di fare corpo si fa tentativo di ridare una misura all’esistente.

In questa idea del posare le forme, dell’allontanarsi dalla dimensione performativa, che spazio occupa allora la tecnica? È qualcosa di cui si può fare a meno?
Non si può fare a meno della tecnica e non credo sia necessario spogliarsene, piuttosto ritengo che a un certo punto sia necessario abbandonarla per esplorare strade nuove, fino a sentire il bisogno di riprenderla. La tecnica è come un martello, è uno strumento che hai a disposizione, grazie al quale puoi sperimentare, entrare in mondi sempre non narrativi.

Agnese Di Girolamo

(in copertina ph: Alessandra Cinquemani)


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