I tuoi lavori sono spesso indicati come “performance politiche”. Ti riconosci in questa definizione? E se sì, in che senso va inteso l’aggettivo “politico”?
Sono interessata alla danza come strumento per parlare di altro, ma non ci sono mai delle vere e proprie dichiarazioni politiche nel mio lavoro, né le troverei efficaci in questo momento storico. Ciò che è importante per me è mostrare dei corpi che abbiano posture politiche,  una modalità “altra”di stare insieme, di relazionarsi con il mondo e, di conseguenza, una possibilità “altra” di esistenza. In questo senso sì: i miei corpi sono “politici”.

Ti sei formata a New York con maestri come Martha Graham. In che modo queste grandi personalità della danza hanno influenzato il tuo lavoro?
Penso che passato presente e futuro siano collegati, e vedo il mio rapporto con il tempo come un attraversamento. Presso la Martha Graham School of Contemporary Dance ho imparato un’attitudine muscolare ed espressiva della danza, che poi, quando ho iniziato a lavorare, ho poi destrutturato quasi del tutto. Questo perché non mi interessa pensare ai maestri come punti fermi assoluti ma farmi attraversare da loro, in un rapporto che porti alla creazione di qualcosa di personale. Le nuove generazioni hanno incrementato questa idea di condivisione: le pratiche sono invenzioni che appartengono a tutti e che ognuno, a suo modo, può fare proprie.

Quindi nel tuo metodo la tecnica è solo uno strumento per l’espressione di se stessi?
Più che di “tecnica”, preferisco sempre parlare di “tecnologia”: è un termine più specifico che sottintende un continuo sviluppo nel tempo. La tecnica indica esercizi basilari che impari, e invece io ritengo sia più importante l’espressione del proprio “essere soggetto”, della propria singolarità che sottintende l’autonomia. Per tecnologia intendo il processo che ingloba tutto questo nell’esercizio quotidiano.

Nello spettacolo ULTRAS sleeping dances uno dei motori che tiene unita tutta la performance è la “semplicità”: come avete lavorato in questa direzione?
Negli ultimi anni ho capito che la complessità sta nella semplicità ed è importante far arrivare all’altro un segno che è apparentemente semplice ma che porta in sé una densa stratificazione. Essere complessi non vuol dire essere concettuali o incompresi, ma trovare quel segno che è di tutti e può arrivare a tutti. In ULTRAS ci sono come quattro danze che si travasano una dentro l’altra e che hanno temi corporei molto semplici: una danza del peso, delle braccia, del pianto, della testa. Partendo da questi temi così basici è stato possibile aggiungere nuovi significati e stratificazioni a questi segni, indagando temi come lo “spazio inclusivo”. Il pubblico ad esempio può assistere allo spettacolo direttamente dal palco: una struttura scenica e coreografica pensata appositamente per portare questo lavoro in qualsiasi luogo, una soluzione semplice che porta con sé pensieri complessi.

Simone Muscionico e Daniele Rigamonti


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview