Quest’anno partecipi a MilanOltre con Shifting Perspective: com’è nato e di che genere di spettacolo si tratta?
Shifting Perspective è un lavoro nato su commissione e pensato per un pubblico specifico, che partisse dai sedici anni in sù. Quando mi sono chiesto che cosa potesse piacere a dei ragazzi (senza però voler cedere ad alcun infantilismo), è scattata la necessità di un cambio di prospettiva e la volontà di demolire l’immagine di un teatro tradizionalista, che esige spettatori rigorosamente seduti in sala. Per farlo ho rivisitato il concetto di spazio: il pubblico è libero di muoversi intorno ai performer a 360 gradi, inoltre agli spettatori vengono fornite delle cuffie con tre tracce musicali diverse (una elettronica, una più melodica e un podcast, in cui sono i danzatori stessi a spiegare in presa diretta quello che fanno) e spetta quindi al pubblico decidere a che tipo di spettacolo assistere, “switchando prospettiva” a seconda del genere di musica che vogliono. Ciascuno poi è libero di fotografare o di riprendere la performance. Shifting Perspective è infatti molto legato all’idea di un rapporto tra corpo e tecnologia, tanto che il messaggio voleva essere proprio questo: la tecnologia migliore a nostra disposizione è sempre e comunque il nostro corpo!
Shifting Perspective segna una rottura rispetto ai tuoi lavori precedenti?
A MilanOltre l’anno scorso ho presentato Lorca sono tutti, un lavoro molto drammatico e nettamente opposto a Shifting Perspective, che, sicuramente, risulta più freddo e tecnologico. Non penso però che si tratti di una vera e propria rottura, sia perché i miei lavori rappresentano semplicemente periodi differenti della mia vita, sia perché la diversità rappresenta la mia voglia di sperimentare a teatro. Negli ultimi anni ho realizzato molti spettacoli site-specific (come ad esempio quello per Atelier Max Mara in collaborazione con Marina Rinaldi) proprio perché mi piace che si operi una rottura drammaturgica, antitradizionalista, rispetto al pubblico.
Nella tua ricerca sul movimento insisti molto sul fatto che il corpo non sia mai a riposo. Allora quale idea di movimento regge la tua coreografia?
Sono sempre stato una persona iperattiva e, quando sono diventato un ballerino, è stato fisiologico riflettere questo aspetto di me nella danza. Ho cominciato studiando balletto classico, cercando di rimanere però aperto a ogni stimolo possibile: con la classica ho imparato a lavorare sfruttando diverse qualità del movimento, rileggendole poi in chiave contemporanea, rispettando sempre l’adagio, il soft, la tensione, il volume, così da ottenere sfumature diverse. Nella mia visione coreografica sono anche legato all’idea di architettura del corpo, come nel tetris, ma, in generale, credo che il mio lavoro, ad oggi, sia la somma di tutte le diverse conoscenze che ho acquisito nel tempo. Da quando ho smesso di ballare in compagnia e ho iniziato a fare il freelance, mi sono infatti potuto dedicare di più a me stesso e a una ricerca stilistica personale, soprattutto da un punto di vista coreografico.
Laura Cassinelli e Lucrezia Tavella
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview