Da dove nasce la necessità di rappresentare nuovamente A. semu tutti devoti tutti? a dieci anni dalla prima?
Principalmente dal persistere delle condizioni in cui si è sviluppato questo spettacolo, e che tutt’ora accompagnano la vita di tutti coloro che abitano la città di Catania. Il radicamento del culto di sant’Agata all’interno della comunità catanese merita sicuramente di essere sviscerato nella sua totalità, con le sue luci e le sue ombre, perché, nella sua pratica, entrano in gioco questioni culturali e sociali fondamentali. Per altro siamo convinti che persone provenienti da molte altre città possano riconoscersi in queste forme di devozione.
La spiritualità è centrale in questo spettacolo, come lo è in La Nona, lavoro che abbiamo avuto modo di vedere l’anno scorso a MilanOltre. Perché secondo voi è importante riflettere su questa tematica?
La spiritualità riguarda tutti e un artista non può fare a meno di confrontarsi con questo aspetto della vita. La visione proposta da Zappalà sul tema non vuole essere una riflessione teoretica sulla natura del divino ma una rappresentazione dell’uomo e delle sue fragilità. Ciò non toglie che in A. semu tutti devoti tutti? la figura di sant’Agata venga immersa in un alone di spiritualità tangibile e resti il fulcro dello spettacolo. Tuttavia viene lasciata allo spettatore la libertà di decidere come interiorizzare la riflessione che viene proposta.
Focus del vostro lavoro sono l’individualità del danzatore e le sue percezioni. Quanto influisce questa prospettiva sul vostro modo di lavorare?
L’individualità è per noi fondamentale in quanto generatrice di diversità. Diversità di corpi, di vite, di esperienza: è questo ciò che portiamo in scena. Sentire la danza come propria, prima che come movimento corale, è il presupposto del metodo di Zappalà. Ovviamente, spetta poi alle indicazioni di coreografia armonizzare la sequenza nei confini di un unico linguaggio.
Dalla masterclass che hai tenuto quest’anno è emerso forte l’attaccamento alla terra e l’idea di un asse corporeo che parte dalle radici. Quanto influisce questo sulla formazione di un danzatore?Credo sia alla base: è uno dei fondamenti della nostra tecnica ed è necessario che sia ben consolidato, altrimenti la rappresentazione apparirà al pubblico sempre incompleta. Quanto a me, trovo interessante la riflessione che ne scaturisce sul radicamento alla terra e sulla componente animale insita nell’uomo. A tal proposito, A. semu tutti devoti tutti? è sicuramente rappresentativo di questa modalità di lavoro.
Ferdinando Solimando e Alice Strazzi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview